L’ombra del giorno: una conversazione con il regista Giuseppe Piccioni aspettando il Bif&st 2024

Questa è una conversazione tra due amici, lo dichiaro subito. Giuseppe Piccioni è stato il presidente della giuria per la sezione Panorama Internazionale al Bif&st 2022 e io ho avuto l’onore di essere parte di quella giuria come giovane critica del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici (grazie sempre a Felice Laudadio e a Valeria Cavalli per l’invito) insieme a Cristiana Paternò (Presidente SNCCI), Kristína Kúdelová (critica cinematografica), e Pierfrancesco Diliberto (regista, in arte Pif). Ma il fatto che Piccioni e io abbiamo condiviso otto giorni di cinema a Bari, diverse ore di proiezione e di amabili discussioni su quel cinema, non mi è sembrato un buon motivo per censurare questo incontro e perdere così l’occasione di discutere con lui del suo film, L’ombra del giorno, proprio dopo il brillante esordio su Netflix a distanza di due anni dall’anteprima internazionale al Teatro Petruzzelli.

Per l’occasione, ho deciso di non rivedere L’ombra del giorno anche se è passato su Rai3 a gennaio 2024 e si trova in piattaforma. Ho anche evitato di leggere la recensione pubblicata sul “The Guardian” e tutte le altre attestazioni di stima al regista (i titoli degli articoli sono molto positivi e così anche il riscontro delle proiezioni all’estero). Ho preferito ricordare le mie impressioni della prima visione: un esercizio di memoria e di onestà che spero i lettori di Polytropon Magazine potranno apprezzare anche come metodo di critica. Giuseppe Piccioni è un regista colto e sensibile, il suo sguardo è capace di una sincerità gentile che raramente si incontra. Potrei dire che è un uomo di altri tempi, ma penso che sarebbe ingiusto: è un uomo di questi tempi, un esempio di come si possa rimanere lucidi e rifiutare la ferocia anche quando tutto sembra tornare indietro.

Comincerei dal titolo del tuo film. Ultimamente l’allegoria della notte (e per estensione dell’oscurità, del buio) è molto abusata: è spesso un alibi nei confronti delle “resistibili ascese” fasciste e neonaziste. L’ombra del giorno mi ha colpito perché si orienta verso una direzione etica completamente diversa, sembra alludere proprio al fatto, cruciale, che le “resistibili ascese” si svolgono in pieno giorno, sotto gli occhi di tutti. Mussolini rivendicava omicidi e atti di violenza gravissimi senza nascondersi, anzi, alla luce del sole.

Sì, fece la sua dichiarazione riguardo l’omicidio di Matteotti in modo clamoroso e in molti, in effetti, pensarono che quello fosse l’inizio della caduta del fascismo, non andò così, anzi, prese la palla al balzo per imporsi. È così, si viveva in un lungo giorno, tutti i contorni sembrano chiari e limpidi, il disegno era esplicito. L’immagine propagandistica del regime lanciava il Paese verso un giorno in cui il sole non sarebbe mai tramontato. Si parlava del lungo giorno del fascismo, ma con le leggi razziali le crepe e le ombre emersero radicalmente e l’ombra più inquietante fu proprio quella della guerra che segnò il Paese. Una scena del film a cui tengo molto è proprio quella della dichiarazione di guerra. Mussolini si rivolge a una piazza urlante, nel film la piazza di Ascoli Piceno è vuota. Certo, ho dovuto scegliere quello che mi imponeva la pandemia, ma vedere quei pochi superstiti dubbiosi, angosciati che prefigurano la devastazione della guerra è anche un’opposizione forte alla piazza mussoliniana che grida scomposta inneggiando a questa violenza. Nel film, in quella piazza vuota, ho voluto inserire questi piccoli drappelli di un’umanità che alla guerra non crede. Mi è sembrata una scelta di messinscena interessante in un film che è realistico: c’è sempre qualcosa negli sguardi che trasgredisce al realismo, che parla di quello che non si vede e che si tace, di un significato più profondo.

L’aspetto estetico è fondamentale in questo film, è molto legato all’etica della storia che trasmetti. Ho notato che lavori al rapporto tra i personaggi e l’ambiente anche nella scena delle piccole italiane che ballano nella piazza vuota, mi è sembrato che tu cercassi in ogni scena una grande misura per portare avanti la narrazione.

La misura è un mistero [ride, ndr]. Però è vero quello che dici, la misura è una cosa che riguarda tutti gli aspetti del mio lavoro, perché a volte il rigore non è solo nella sottrazione. Ci può essere anche un rigore nella misura dell’eccesso oltre che in quella del difetto. Questo è ciò che cerco nella messinscena. Che cos’è la messinscena? Sono tutte le scelte di spazio, di uso degli attori, di movimento della macchina da presa, di composizione. Flaiano diceva che il cinema è gastronomia: aggiungo un ingrediente, provo combinazioni, un po’ di più, un po’ di meno. Mi dico sempre che bisogna arrivare alla fine del film con il minor numero possibile di rimpianti. Ci possono anche essere scelte che ti fanno deragliare, puoi deragliare, ma bisogna in ogni caso evitare di avere rimpianti. A volte, ci sono delle scene difficili perché quel confine tra la riuscita del discorso e il suo totale fallimento è molto piccolo. Basta poco per affondare. Il mio è un lavoro fatto con stomaco e nervi. Mi hanno detto spesso “Quando stai davanti al monitor si vede che segui la scena come se la somatizzassi”. E io sto sempre lì con il desiderio di essere sorpreso, ma anche con il timore che stia per cadere tutto, ecco poi quella mia smorfia indecifrabile davanti al monitor. Sì, la misura è un mistero di attaccamento e dedizione a quello che stai facendo.

La scena più difficile da girare?

Ce ne sono diverse. Il finale, sicuramente… perché sapevo che era l’ultima scena da girare. Eravamo su questa spiaggia all’alba, con la luce sempre più cruda. Quando giri il finale e oramai hai il polso del film, lo hai sentito il film che procede, sai che sbagliare a questo punto sarebbe un gran peccato anche se non hai ancora la conferma del montaggio. Mi ricordo Benedetta [Porcaroli, ndr] che all’inizio era solamente lacrimosa, ma io volevo che lei mettesse anche un sorriso in quella tristezza, in quell’accenno di pianto per l’addio tra i due protagonisti, Anna e Luciano. Volevo rendere l’idea del dover fare uno strano “buon viso a cattivo gioco”. Volevo che lei accennasse un sorriso, ma con uno sforzo di vedere in quell’addio la bellezza che c’è stata tra Anna e Luciano. Volevo che ci fosse il senso dell’ineluttabile, del destino. A me piace il destino, era nei film degli anni Trenta e Quaranta, nel realismo poetico francese con Jean Gabin. Benedetta è riuscita a trovare questo sorriso che non è convinto e non è convincente, ma che rende meno scolastica e convenzionale la pena di Anna. Ho provato la scena con Riccardo [Scamarcio, ndr.] e con Benedetta… alla fine eravamo tutti in lacrime [ride, ndr.]. Un’altra scena davvero difficile è quella in cui Luciano spara al giovane cameriere che è una spia fascista. Il ragazzo sta morendo, ma c’è questa irruzione di pietà e compassione anche se è un fascista. Era una scena rischiosa, perché c’era anche la componente di azione per via delle pistole, ma si rischiava una grande scivolata. Anche lì ho cercato quella misura di cui parlavi tu. Ho voluto dire che non bisogna vergognarsi di provare compassione, né conviene censurare qualcosa di quel ragazzino che sta morendo… anche se ha aderito al fascismo. Morendo dice “mamma”, ma è un rischio che ho voluto prendermi.

Questa scena mi ha fatto pensare a La Storia di Elsa Morante: anche Gunther, il violentatore di Ida Ramundo e padre di Useppe, muore in guerra ed è caratterizzato dal richiamo alla madre. Morante vuole sottolineare che il nazifascismo fece soldati anche dei ragazzini, ragazzini che avrebbero potuto ragionare sulle loro azioni se solo non fossero stati abbandonati all’esaltazione, privati di qualsiasi alternativa e accecati dalla propaganda dei regimi.

Ah, vedi… non avevo riletto La Storia, ho visto il lavoro di Francesca Archibugi proprio recentemente e mi ha colpito molto questa disperazione di Useppe che di continuo sillaba “A ma’!”. È un fonema della mia infanzia questo “A ma’!”, però non ha più cittadinanza oggi, se non per essere strumentalizzato o reso retorico. Sì, con questo senso diventa un richiamo straziante.

A proposito del femminile ho notato che sei un regista molto attento. Mi piace molto scoprire che il tuo sguardo non è quello di un uomo “con i calzoni” che vuole giudicare o strumentalizzare la donna, o dirle cosa deve o non deve fare per essere emancipata e integrata.

Orson Welles diceva che i grandi registi devono avere qualcosa di femminile, se non sbaglio. Se uno pensa a Orson Welles non viene in mente che abbia qualcosa di femminile, quindi non è una questione da ancorare all’orientamento sessuale o alla fisicità. Si tratta di una sensibilità. Se si guarda The Lady from Shanghai (1947) si capisce subito questa sensibilità: lui mette in scena una grande attrice e la guarda con rispetto profondo. Posso dirti che in effetti sento molto il femminile, e forse dipende da cose personali e biografiche: mio padre è stato fuori per molti anni quando ero piccolo, anche avendo due fratelli più grandi, la presenza delle donne è stata fondamentale. Stare in quella cucina degli anni Sessanta e ascoltare i discorsi di mia madre e delle sue amiche per me era un momento di grande godimento, ero ammirato e curioso. Non voglio fare psicologismo da quattro soldi, ma avere vissuto tra le donne mi fa partecipare alle emozioni di questi personaggi femminili con una attenzione, questa sfera mi attrae moltissimo. Penso che le donne accettino più volentieri i rischi, penso che siano più pronte a entrare completamente nelle cose e forse sono più sciaguratamente esposte alle cadute, ma quello è un coraggio che non è facile ritrovare negli uomini, un coraggio che ammiro. A volte, poi, l’attrice viene anche sciupata dal regista, il cinema è pieno di muse che vengono usate per l’immaginario, non sempre con rispetto. È interessante questo aspetto che suggerisci.

Ti confesso, da donna, che il “cinema al femminile” spesso è molto deludente: diventa l’etichetta stereotipata per produrre film, storie e cultura per il consumo, ma non aggiunge niente alla causa dell’emancipazione. E spesso uomini e donne, anche chi si ritiene illuminato e progressista, mi sembra cadano in questa trappola creando personaggi femminili “tollerabili” che finiscono per dare forma a ulteriori gabbie sul corpo politico delle donne.

Sì, il linguaggio che usiamo ci ingabbia un po’ troppo, non riusciamo a essere corretti. Si abusa di termini, modi di parlare, formule brutte anche linguisticamente perché prive di ricchezza espressiva. Sì, “cinema al femminile” sembra un farmaco.  

È apprezzabile il fatto che tu tenti nella narrazione, e lo fai in modo onesto, non semplicemente di dare un ruolo alla donna, ma di affermare che la donna è un ruolo e che questa dinamica politica e sociale deve essere approfondita e anche decostruita.

Sì, la donna non è decorativa, per me. E a me interessa ancora parlare dei sentimenti, anche se sono scomodi. Ora che ci penso, L’ombra del giorno è la storia di un uomo di altri tempi da cui ci si aspetterebbe dei comportamenti, ma che invece ha contraddizioni e fratture interiori: se racconti un uomo con le caratteristiche di massima correttezza ne fai un personaggio più accettabile, perfetto quasi, ma falso. Sono proprio le contraddizioni a essere importanti: nonostante un carattere segnato dal suo ruolo sociale e di genere (nella storia siamo nel 1938), emerge una sensibilità su cui si può lavorare, una sensibilità che gli permette di fare scelte diverse da quelle attese. Sarebbe stato facile costruire una figura di macho, ma lui non fa nemmeno quello che il suo ruolo di eroe richiederebbe. Potrebbe uccidere tutti i fascisti dopo l’omicidio del giovane cameriere, ma non è un assassino, quel colpo parte accidentalmente e lui ne rimane sconvolto. È un eroe omerico: non è Achille, è Ulisse. Luciano cerca di trovare una soluzione con scaltrezza. Somiglia un po’ a mio padre, con la divisa da sottufficiale di marina: uomini di quel tempo che però riuscivano ad avere una sensibilità non allineata all’ideale virile di propaganda. Mio padre era un invalido di guerra, ebbe un orecchio lesionato da una bomba di profondità.

Anche questa scelta, dal punto di vista narrativo, è molto interessante. Luciano è un invalido di guerra, un reduce e il regime fascista strumentalizzò i reduci della I Guerra Mondiale per ottenere consensi. La cosa che mi è piaciuta molto è il gesto politico di Luciano: usa la camicia nera per salvare Anna e suo marito invece di consegnarli ai fascisti.

Non sai quanto piacere mi fai: quella, secondo me, è la scena più importante. Usare la camicia nera con tanto di decorazioni, di cui lui si vergogna, ma per salvare, per amare, per dare qualcosa agli altri anche rinunciando a qualcosa lui stesso… mi emoziono proprio quando rivedo Luciano davanti allo specchio che non sa manco abbottonarsi la camicia nera, ma che in modo scaltro è pronto a usarla contro la violenza. Sono contento, non ne parla mai nessuno di questa camicia nera usata contro il regime.

Ultima domanda, vorrei tornare ai nostri giorni, al Bif&st: dopo due anni che ricordi hai di quella esperienza?

Fui incoraggiato da Felice Laudadio e Orsetta Gregoretti. Felice aveva appena visto il film ed era entusiasta. Gliene sono grato, il film non sembrava avere destato molte attenzioni come invece è accaduto quando è arrivato su Netflix. È stata una bella esperienza: è un Festival vivo, noi siamo stati una giuria viva… abbiamo fatto un bel lavoro, non ci siamo sottratti, siamo stati bene tra noi e non è scontato! Un po’ come quando si scrive un film con un altro sceneggiatore… può essere anche molto bravo, ma ciò che conta è riuscire a convivere e scrivere insieme quel tempo. Non ho subito nessuno di voi, spero voi non abbiate subito me! [ride, ndr.] A parte le mie scivolate sul marciapiede…

Eri il più elegante, ma i mocassini con l’umidità barese diventano problematici, è un fenomeno noto agli indigeni! Siamo stati tutti bene, è vero, eravamo vivi! [ridiamo, ndr.]

Al Bif&st mi sono sentito accolto, protetto con delle premure delicate. Poi la bellezza di questa città… vedere il mare. Tutto congiurava a favore… sai, una volta tanto nella vita! Poi tu eri la più giovane del gruppo, mi sembrava di essere in una specie di piccolo parlamento con tutte le età rappresentate e tu con il tuo entusiasmo: l’entusiasmo dei giovani è importante! Bisognerebbe ascoltarli di più i giovani… se le scontentezze non si incanalano verso una energia creativa, positiva, diventano fascismo. Quando la scontentezza non trova risposte e non trova comportamenti o scelte possibili virtuose, diventa una roba malmostosa che porta al fascismo, sì. E bisogna stare attenti. Però non è facile oggi, questi tempi…

Però finché si è vivi, come dici tu, e come canta Andrea Laszlo De Simone nel film, si può scegliere…

Già, non conoscevo la canzone, ma al montaggio l’ho trovata perfetta, la devo a Riccardo. Sì, finché si dice “Vivo”…

ARTICOLO DI IRENE GIANESELLI

In copertina Giuseppe Piccioni, Riccardo Scamarcio e Benedetta Porcaroli all’anteprima de L’ombra del giorno (Teatro Petruzzelli, Bari) foto di Daniele Notaristefano dal Bif&st 2022

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