Addio maestro: per Enzo Moscato

Now begin the big strip tease, my gentlemen, my ladies!

These are my hands… These are my knees!

I may be skin and bone … I may be bodyless…

Anyway, I am allways the same, the identical women…

Anne Sexton

Pensare di scrivere al maestro Enzo un addio come si deve ci vorrà tanto teatro e tanta vita per tutti. Per scrivere di Enzo ho dovuto aspettare che passasse la nottata, ho cercato di dormirci su. Ieri sera il mio cellulare si è scaricato, perché mi sono distratta: il lavoro, la ricerca, la scrittura, la città di Bari in fermento per i saldi di gennaio, i rumori del traffico e gli appuntamenti tra i libri che temevo di mancare per stanchezza e perché la giornata quella è. Non gli ho concesso la ricarica per tempo e così quando ci siamo trovati a cena con alcuni amici, come spesso mi accade, senza troppe cerimonie, ho spento il telefono. Quando sono tornata a casa l’ho riacceso e mi è arrivata in ritardo di un’ora sul fuso orario dell’esistenza la notizia che Enzo non c’era più. Ho ripercorso la mia serata, mi sono accorta di una coincidenza e tra le lacrime ne ho sorriso. Solo io a cena ho ordinato una pizza, ma mentre la mangiavo ho fatto capitare nel discorso Enzo Moscato, ho detto ai miei amici: “Inutile, la pizza di Bari non sarà mai buona come quella di Napoli, è n’ata cosa. Buona pure questa, eh, ma n’ata cosa!”. “Eh – ha ribattuto l’unico uomo della nostra tavolata – però ora pure a Napoli ci mettono l’ananas sopra” e ne abbiamo riso. “Vero pure questo, però io di solito la mangio vicino al teatro dove studia e lavora il mio maestro, vicino alla Sala Assoli. Lì sì che la pizza è buona, soprattutto è una specie di rito dopo gli spettacoli di Enzo”. E non sapevo che pure questo dirlo faceva parte di un rito, un rito pieno d’amore perché è questo che il teatro di Enzo Moscato ha edificato: che si mangi insieme o che insieme si guardi uno spettacolo è sempre un atto politico, l’atto politico di condividere un pane che è nutrimento.

È incredibile, quanto siamo superficiali nel quotidiano affannarci. Pensiamo che la morte del corpo abbia solo la forma di una vile assassina, di una infame predatrice venuta a interrompere i giochi troppo presto. Invece Enzo pure nel morire ci ha lasciato una lezione di teatro: perché la morte arriva, si siede accanto a te e ti accarezza, è la commensale non invitata, quella per cui non si era lasciato posto a tavola, che però non ti guarda malevola, il suo compito è consolarti e ti consola, senza metterci la retorica preparatoria. Il rimedio te lo offre, lieve e generoso, senza che tu sappia di doverlo chiedere.

E il ricordo, infatti, consola, ci rende vicini pure se le notizie non ci possono raggiungere.

Per me resta indimenticato Enzo, sarà sempre così e quindi prendete questo breve testo come la testimonianza di un’allieva: io i coccodrilli, come si dice in gergo giornalistico, non li posso soffrire, è più forte di me. Ci si dimentica sempre qualcosa, non si dice mai tutto quello che si pensa, si deve evitare di condividere con chi legge la cosa più importante, cioè la relazione con chi si è perduto. Invece io da questo voglio cominciare e continuare, voglio testimoniare anche per chi non ha avuto la fortuna di incontrare Enzo.

Enzo è stato per me una creatura superiore, la voce inaugurale di tante strade e di tante feste in onore della cultura che è, prima di tutto, costruire spazi di condivisione. Devo la sua conoscenza a Enrico Ianniello, perché fu lui in una prefazione ai miei primi racconti a suggerirmi di studiarlo. “È per te, senti a me! Appena puoi cerca di vedere Compleanno” sentenziò Enrico e pochi mesi dopo Enzo, quasi magicamente evocato da lui, comparve a Bari, in Vallisa, portando proprio Compleanno in scena. Si era nel 2015-2016, da quel momento, da quel primo incanto nel vederlo in scena, Enzo per me è stato un maestro.

Un maestro che ha sempre incoraggiato con fiducia le strade e le feste. Penso alle avventure editoriali brevi, come la pubblicazione a tiratura limitata di Festa al celeste e nubile santuario e Compleanno sostenuta dall’Associazione Felici Molti nel 2018, un primo incontro con la sua lingua e il suo linguaggio intenso per me: ma quanto poco di Enzo davvero avrei capito se lui, lungimirante e paziente, non mi avesse concesso di leggere, analizzare e studiare così questi due testi curandone l’edizione e intervistando anche le sue attrici, tra cui l’immensa Isa Danieli. E non penso sia un caso che Enzo ci abbia lasciato proprio mentre la signora Danieli era in scena ieri sera. Quella di quel piccolo volume è stata un’avventura filologica e linguistica preziosa, un’esperienza didattica su cui riflettere ancora perché possa diventare una pratica. Penso ancora al Festival Conversazioni – La letteratura è di scena sempre organizzato grazie all’Associazione Felici Molti, nella sua III edizione, la più compiuta prima della pandemia che poi ha cambiato e peggiorato sicuramente la situazione di noi giovani teatranti: Enzo lesse Spiritilli per un sala piena all’inverosimile in Mediateca Regionale Pugliese, e immagino che Iaia Forte ricorderà questo momento con il mio stesso affetto perché lei in quel periodo era la presidente onoraria dell’Associazione e lesse La Storia il giorno dopo. Penso alla tua voce, Enzo, che ha accompagnato il mio primo studio Un pesciolino, il monologo di Pasolini, sempre in quella edizione di Conversazioni del 2019. Che m’è ’mparato a fa’? cantavi tu, e già lì cominciava lo spettacolo.

La presenza di Enzo è stata una certezza in questi anni, anche nel suo riserbo e nella sua mitezza: questo giornale, Polytropon Magazine, conserva tante tracce di quelle strade e di quelle feste vissute insieme e in particolare nel numero zero della testata c’è proprio un suo bellissimo articolo sui nostri amati Quartieri Spagnoli grazie all’assistenza sempre vigile e attenta di Claudio Affinito.

Serve tempo, Enzo, e non ne abbiamo e so che tu puoi capirmi perché rubo al tuo Antonio Neiwiller queste parole mentre penso all’incontro mancato di luglio 2023 a Pompei quando ho accompagnato al Pompei Street Festival Il misuratore del mondo: sono tornata a Bari perché dovevo partire di nuovo il giorno dopo, non ti ho visto ritirare il tuo premio, non ti ho potuto salutare.

Serve tempo, Enzo, non ne abbiamo perché abbiamo tutto il tempo del mondo per ricordarti.

Ma com’è che si fa memoria? Sarà questione di tradinvenzione. Non dovremo permetterci di farti diventare un santino imbalsamato: io già me lo immagino, tu così ribelle, quanto poco sopporterai i pianti se non sapremo farne un progetto politico. Se davvero siamo gli ammoniti dalla società, allora tutti noi che ci occupiamo e facciamo a vario titolo teatro e cinema, dovremo trovare il modo per offrire il tuo lavoro alle nuove generazioni, è questa la ronda che ci hai assegnato. Dobbiamo rinnovare il rito, tornare a raccogliere e bruciare, come diresti tu, farci custodi di un cancello aperto sul tempo che fu. Svuotare la nicchia prima che si cristallizzi, restituirti al tempo e allo spazio anche fuori da Napoli: perché è vero che la pizza di Napoli è solo a Napoli che si può mangiarla, ma se non si esplora quello che c’è oltre, come si fa davvero a dire di avere vissuto?

Si deve stare a Napoli per poter stare in tutto il mondo. È questo quello che la tua sudata e faticosa archeologia del sangue ci ha insegnato e continua a insegnarci, pure quando tu maestro muori e noi non lo crediamo possibile.

Addio, maestro, tienici d’occhio come sai fare tu.  

Lo sai di chi è il compleanno oggi, lo sai di chi è, chi è?

ARTICOLO DI IRENE GIANESELLI

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