Stranizza d’amuri: “E la felicità, Prof?” di Visitilli debutta al Maggio

Quante cose succedono a maggio: si nasce, si muore, si impara e si cresce. Così, in mezzo a ragazzine e ragazzini, una creatura davvero particolare va in scena il 20 maggio alle nove del mattino al Teatro Radar di Monopoli. Il monologo “E la felicità, prof?” viene proposto in anteprima nazionale e in apertura di programma del “Maggio all’infanzia – Festival di Teatro per le nuove generazioni” diretto da Teresa Ludovico.

È stato Carlo Cecchi a insegnarmi che gli spettacoli, quando sono “cose vive”, si devono chiamare “creature”. «Sei creatura tu? E lo è pure lo spettacolo, se non lo metti in scena che è già morto». È una questione di biologia, oltre che di sentimento perché una “cosa viva” nasce e muore, ma, soprattutto, ha il dono di potersi trasformare e di mutare. E così prendo in prestito le parole di uno dei miei maestri perché “E la felicità, prof?” è proprio una creatura ed è, in qualche modo, un manifesto per chi vuole sedersi dietro la cattedra (anche se, diciamocelo, i maestri di solito li si riconosce perché dietro la cattedra non ci stanno mai).

E non pensate di chiedermi subito che sesso ha, a che genere appartiene e quale sia l’identità di questa creatura, non crediate di poterle mettere addosso una etichetta, come si usa fare adesso nel tentativo di moderare e prevedere l’evoluzione di un sogno. Perché Giancarlo Visitilli, che firma drammaturgia e regia, oltre ad essere per Einaudi (2012) l’autore del romanzo omonimo dal quale ha tratto lo spettacolo, è riuscito in una vera e propria impresa: è un adulto, un maestro, a prendersi la scena, ma si tratta di un maestro che  porta lo zaino sulle spalle come uno studente. Si tratta di un maestro che ha “ripulito lo sguardo” prima di entrare in classe, per dirla con Piero Bertolini, che usa il corpo, la memoria e tutte le altre proprietà della semplessità nel suo agire educativo, per dirla con Alain Berthoz e Mario Sibilio, mettendosi sempre in discussione con uno sguardo davvero inclusivo e appassionato del sistema complesso “classe” nel quale si immerge. Avrebbe potuto esserci il rischio di trasformare un romanzo che trasuda vocazione in un atto di retorica autoreferenziale, ma Visitilli si tuffa nella carne viva della storia con una regia che smussa gli angoli alla struttura apparentemente schematica che procede per episodi ripercorrendo l’anno scolastico da settembre a giugno, dall’ultimo tuffo della stagione precedente, all’ultimo tuffo di lacrime prima di tornare a farsi abbracciare dalle onde.

Estate ed estate si ricongiungono così nel cerchio senza quadratura del “sogno di una cosa” che è l’insegnare, ma non sono più la stessa stagione: sì, certo, il mare, la sabbia e il cielo ritornano a brillare alle spalle dell’attore (Riccardo Spagnulo) sullo schermo che fa da fondale, ma il protagonista, questo maestro giovane e senza età allo stesso tempo, ha attraversato il mutamento dei suoi allievi e li accompagnati fino all’Esame di Stato e oltre, li ha visti andarsene incontro alla mattanza di essere donne e uomini in una società ipocrita e melliflua, ancora piccolo borghese e fascista che li “invita al massacro”. E gli occhi del maestro devono tornare ancora in altre aule perché quel “sogno di una cosa” non si perda e trovi la forza di restare “creatura” anche contro la realtà.

Come si insegna ad essere felici? Permettendo a tutte e tutti di essere ciò che desiderano essere, senza etichette e senza dover trovare giustificazioni al sentire e al come si sente. Riccardo Spagnulo, che si avvia in una fase attorale matura, trova una eleganza sincera, non affettata, una delicatezza e una sobrietà che danno robustezza al “gioco del teatro” portando sulle spalle, dentro quello zaino, l’intero monologo. Ma il peso delle parole, dei pensieri che propone diventa leggero anche nel momento in cui è proprio Visitilli, voce fuori scena, a pronunciare le battute di docenti diversi nell’atto del giudizio finale (battute che suonano come se le stessimo ascoltando in presa diretta). Non manca la critica a quel “corpo docente” che, inutile negarlo, esiste in tutte le scuole: quel corpo docente che non valuta per valorizzare, per dirla con Loredana Perla, ma che giudica per punire, moderare, imbrigliare talenti, identità e speranze degli allievi.

Visitilli ha il coraggio, lui stesso docente, di ammettere che i cattivi maestri esistono e possono cambiare, in peggio, la vita degli studenti a loro affidati. Ma la Scuola deve tornare a esistere, e in molti casi è già così, per offrire davvero a tutte e tutti le stesse possibilità: al figlio del bancario come alla figlia dell’operaio metalmeccanico. «Deve fare Teatro solo chi non può vivere senza fare Teatro» è un altro degli insegnamenti di Carlo Cecchi. Ecco, aggiungerei che deve fare la Scuola solo chi non può vivere senza fare la Scuola.

Quante cose succedono a maggio: si nasce, si muore, si impara e si cresce. Tornando a Bari dalla radio mi arriva la voce di Franco Battiato, quel modo di dire la musica e di manifestare una presenza che sono lui. Forse, mi sono detta, passa in radio questa voce perché il 18 giugno moriva Battiato, in radio e in televisione, sui social e sui giornali, ultimamente, i maestri vengono evocati solo perché non ci sono più. Così per chiudere questo articolo potrei citare Prospettiva nevski «E il mio maestro mi insegnò com’è difficile / Trovare l’alba dentro l’imbrunire» perché la canzone in radio era questa. E invece ripenso alla delicatezza e alla presenza di Visitilli attraverso il suo romanzo prima, ora attraverso Riccardo Spagnulo in teatro e continuo a pensare a questo manifesto dell’inclusività e della stranezza che è “E la felicità, Prof?” in tutte le sue forme.

«’Ccu tuttu ca fora c’è ‘a guerra / Mi sentu stranizza d’amuri».

ARTICOLO DI IRENE GIANESELLI

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