Daniele Notaristefano ricorda Letizia Battaglia (5 marzo 1935 – 13 aprile 2022) a una settimana dalla sua morte.
La prima volta che incontrai Letizia Battaglia fu in sogno, nel 2011. Eravamo soli, seduti in un salotto borghese e parlavamo di fotografia sfogliando alcune sue stampe. In quella circostanza io non riuscivo a parlare o ad emettere alcun suono: sentivo solo la sua voce e i suoi racconti, come in un documentario e come se la conoscessi da sempre, c’era anche il montaggio! La sognai dopo aver letto il catalogo della mostra di “Dovere di cronaca – the duty of report” a cura di Franco Zecchin, compagno di vita e di lavoro per diciott’anni della grande autrice palermitana. È un lavoro importante, questo, tra i suoi più celebri, poiché rappresenta l’incontro e il mescolarsi – come in una tavolozza di colori a olio – di tutto ciò che era più caro alla grande Letizia: Palermo, l’impegno sociale, gli ultimi, la bellezza, lo sguardo delle donne. O per dirla meglio: la restituzione dello sguardo delle donne. Per capirlo basta vedere proprio la copertina del catalogo: tre donne ai piedi di un corpo morto, ucciso, coperto da un telo, vittima di quella guerra di mafia oggetto del testo.

Gli sguardi di queste donne seguono diverse direzioni e non sono semplici occhiate, ma profonde rappresentazioni del loro stato d’animo. In questa fotografia coabitano almeno dieci click e sono dettagli di una Palermo umana, spietata e silenziosa. Amore e orrore, Eros e Thanatos sono alcuni cardini della relazione sensoriale a cui ci induce un’embrionale indagine sulle possibili figure ermeneutiche che emergono dell’enorme mole di documentazione che la fotografa ci ha lasciato. Se volessi analizzare la fotografia di Letizia Battaglia, di sicuro prenderei in prestito dall’analisi filmica, l’approccio suggerito dalla Feminist film theory. Perché in Italia, Letizia e le sue immagini sono state simbolo e veicolo dell’emancipazione della donna e della lotta al patriarcato. Ma l’analisi dovrebbe andare oltre, o meglio, bisognerebbe analizzare più aspetti: dal contesto – Palermo e l’idiosincrasia d’esser bella e maledetta- all’estetica – rinascimentale, caravaggesca, lirica – ma non mi inoltrerò in questa perigliosa via perché vorrei condividere il mio incontro con Letizia Battaglia.
Ricordo che quando la incontrai sul serio, un anno dopo il sogno, fu durante un workshop da lei tenuto sulla fotografia sociale. Mi ha colpito l’energia e la passione per i suoi soggetti, nonché del carico di sofferenza che ha saputo portare sulle sue spalle, la sofferenza per tutto quell’orrore che ha visto e ha dovuto fotografare. In quell’occasione ci rivelò che avrebbe voluto bruciare i negativi del suo lavoro sulla lotta alla mafia. Ma non si può strappare un documento alla storia, perché è divenuto negli anni elemento costitutivo dell’immaginario sociale. E questo Letizia Battaglia lo sapeva benissimo, tant’è che quel workshop lo concluse parlandoci di tutte quelle fotografie che non ha scattato, di quell’archivio metafisico interiore: intangibile e personale. Arrivò il momento della lettura del portfolio, era dolce ed aspra nello sguardo, ma la mia fortuna volle veder prevalere la clemenza. Mi disse che avevo fatto alcune foto molto buone, altre solo belle e mi diede qualche consiglio di natura narrativa. Le strinsi la mano, tornai al mio posto e quell’esperienza finì.

Negli anni ho seguito i suoi lavori – tra i quali la vicenda che la portò all’insolente ed ingiusta gogna mediatica dopo il celebre servizio fotografico per Lamborghini – tanto che un giorno mi sono imbattuto in una sua call for artist per una mostra al centro internazionale di fotografia di Palermo. Si chiedeva ai fotografi di interpretare la poesia “Cane” di Lawrence Ferlinghetti, il poeta della Beat Generation scomparso nel 2021. Nella poesia si parla tra l’altro di solitudine, diversità, punto di vista. Inviai le prime foto, ma Letizia chiese altri scatti, così da avere una maggior scelta. Alla fine del processo una mia fotografia è stata selezionata e messa in mostra ed è allegata a questo scritto. Purtroppo non andai all’inaugurazione a Palermo, il 21 ottobre 2021, ma scrissi al Centro Internazionale di Fotografia che lei dirigeva, per ringraziarla.
È stata tra le ultime mostre da lei curate presso il Centro. Oggi mi pento di non esserci andato, perché avrei voluto incontrarla ancora. Mentre ripenso a questo so che nell’Olimpo della fotografia italiana ed internazionale il suo nome, come i suoi capelli, brillerà per sempre accanto a quelli di Chiara Samugheo, Cecilia Mangini e Tina Modotti. Potrò rileggere i suoi libri per sognarla: spero in un altro incontro fotografico onirico.