Archeologia del sangue: in anteprima un estratto dai racconti di Enzo Moscato per Cronopio Editore

Pubblichiamo come anteprima un estratto dall’ultimo racconto della raccolta Archeologia del sangue (Edizioni Cronopio, 2020) di Enzo Moscato per gentile concessione delle Edizioni Cronopio, Napoli.

Un arduo, spigoloso argomentare

(fenomenologia ‘carneval-piedigrottesca’ di un endemico/epidemico morire, per mano di una febbre micidiale, detta coralmente, ‘laspagnola’)

2018-1918

Stanotte, ho sognato di una sorellina di mia madre, che si chiamava Carmela. Io non l’ho mai conosciuta, ovviamente, perché morì di ‘febbre spagnola’ nel 1918. Mia madre ci parlava sempre di questa bimba morta a tre anni di età.

Scriverò un racconto su di lei, dunque, visto che il sogno è come se me lo avesse pietosamente chiesto. Strano, però, sognarla, per la prima volta, esattamente cento anni dopo che se ne andò!

Qui, nel vicolo, passato l’inverno, come aprono i balconi e le finestre a un mero, incerto sole, subito dall’interno delle case si sentono i pianti dei bambini. Che sono, sì, insistenti, e anche strazianti, in un certo senso; proprio, magari, per questo loro insistere, chi sa?; ma anche come ‘futili’, comicamente, ‘futili’, vanesii, aleatori; pronti a disperdersi e a svanire, in un istante (così come, in un istante, sono nati), alla prima occasione distraente, simili al capriccio di una donna volubile e un pochino pazzerella.

Si sentono, insomma, a balconi e a finestre aperti, nel primo trepidar dell’aria, fra l’ultimo febbraio e l’iniziar di marzo, dei pianti dei bambini come un sorgere e un infrangersi, un nascere e un morire, all’improvviso, subitaneo, che lascia il cuore incerto, e, a volte, un poco spaventato, di colui o di colei, che, su o giù, nel vicolo, li ascolta. Ma ‘spaventato’, ‘impaurito’, perché?

Beh, primo, perché pare, non so, che alla troncatura improvvisa di quei pianti, all’aprirsi/spalancarsi di balconi e di finestre, abbia provveduto qualche non proprio materna, anzi brutale, mano, premuta sulle bocche infanti; il che dà un trasalimento un po’ indignato, converrete, e poi… e poi, perché, forse, ecco, al primo frignare di un bambino, mi accorgo che non sono sopiti nel cuore di tutti – il mio per primo! – il ricordo, la memoria, lo sconcerto, lo spavento, appunto, il lutto, di ciò che è successo, di ciò che è capitato, alla maggior parte dei fragili bambini del vicoli, appena qualche tempo fa, tra la fine dell’inverno e il principio di primavera, quando si è abbattuta sulle insalubri case, su quei ‘vasci’, quei miseri tuguri, quei bui ‘soppìgni’ ancora ‘mastrianici’, nonostante l’epoca moderna, il flagello misterioso di quel ‘male’ che vien detto, quasi come un bel suon di nacchere, ‘laspagnola’, facente ovunque strage, soprattutto di ‘criature’, di piccini, nel quartiere.

Se, all’aprirsi di finestre e di balconi a questo sole, anch’esso come infermo, malaticcio, i bambini li sentissi ridere, invece che strillare con tutto quel pianto in gola, il cuore, certo, non sussulterebbe di paura, di timore, per altri e ancora più sinistri presagire del ritorno del flagello; ma c’è che, da un po’ di tempo a questa parte, mi pare che ridere non ridano più, né dentro né fuori dalle case, e che piangano, invece, continuamente; anche se questo continuo pianto a me mi arriva solo per rapide e improvvise intermittenze, quando, al sole incerto, a questo pallido tepore, di/tra la fine dell’inverno e primavera, balconi e finestre (ma anche le porte dei luridi bassi, radenti l’altrettanto lercio spazio su cui sorgono, se è per questo!) prendono a venire spalancati, e, al rumore che essi fanno nell’aprirsi sopra il vicolo e a quel pianto, subito interrotto, dei bambini, io alzo, intimorito, il volto in alto o lo giro, rasoterra, verso la miseria pidocchiosa dei terranei, in fronte a me. Certo: ci può essere dell’‘altro’ e del ‘diverso’, volendo, a monte di quel pianto, breve e intermittente e per di più straziante, di bambini, proveniente dalle case.

Semplici capricci, magari.

Qualche ‘inzìria ‘e piccerille.

O un malessere qualunque.

O maltrattamenti di parenti.

[…]

Forse è solo un’eco, l’eco del male, tout-court.

Del male, che se ne è andato e del male che ritorna.

O che mai se ne è andato e, pertanto, non ha affatto bisogno di ritornare.

Sta qui con noi.

Da sempre e per sempre.

La nostra ombra stessa, quel male.

Noi e lui, noi ed esso, quel male.

Siamo la stessa, identica cosa.

Anche se, apparentemente, ingannevolmente, ci culliamo dentro la (confortante) convinzione che siamo due distinte cose e separate.

[…]

Noi Napoletani, vedete, in un certo senso, siamo sempre stati, per tradizione, un popolo epidemico.

Dell’epidemia, dell’infezione, siamo, siamo sempre stati, per tradizione (e, ormai, anche per convenzione) la preda e, al contempo, il veicolo, del male.

Le vittime ed i traghettatori. I colpiti ed i colpenti ‘da’ e ‘di’ un flagello, ritornante e apocalittico.

Che esso flagello, che essa calamità, abbia e abbia sempre avuto, nella storia del mondo di qua giù, i nomi, diffusi e di potente pathos effusi, di peste, di colera, di salmonella, di vaiolo, di ‘spagnola’, o, altrimenti, se dal patologico clinico ci voltiamo verso il patologico sociale, di lazzarismo, sanfedismo, qualunquismo, camorrismo, gomorrismo, o di terremotizzazione/eversivizzazione, incivica-genetica-sociale, buona a tutti gli usi e a tutte le nomenclature/coperture di machiavellici trabocchetti, sedicenti politici, in ogni stadio o epoca del tempo, non toglie e non mette.

Quello che, invece, a mio modesto avviso, fa conto d’importanza, e, quindi, ‘toglie e mette’ terribilmente, se ce ne mettiamo a disquisire, è che proprio a causa, o a partire, di/da questa insistenza-ritorno, secolari, forse millenari, nella storia, dalle nostre parti, del male, con la iniziale in piccolo, in minuscolo, ‘fa presto e a lungo andare’ (e notate l’ossìmoro cogente, dei due avverbi; la straordinaria ed espressiva contraddictio in terminis!) a divenire Male, con la iniziale in grande, vale a dire maiuscola.

[…]

Nulla, proprio nulla è mutato, sotto questo timido quanto livido e certamente anche irridente astro, il quale dovrebbe dar calore oltre che vitale luce, a noi, poco più che cavernicoli impotenti e smarriti e derelitti abitanti del quartiere.

[…]

Allora come adesso, rifletto, tutti i vicoli e gli anfratti di Napoli e dintorni, dovettero vedere aggirarsi o sostare imbambolati e stupefatti, per i lerci lastricati, infra ed extra urbani, d’’a città, decine e decine, o centinaia e centinaia o addirittura migliaia e migliaia, di ‘piccerille’ scansati dalla Morte, teatralmente travestiti, per ringraziamento, da san Ciro, sant’Antonio, san Vincenzo, soprannominato ‘’o Munacone’, o da santa Rita, santa Patrizia, santa Teresa, o anche da ‘Vergine di Lourdes’, da ‘Madonna di Pompei’, o da ‘Mamma della Saletta’ e via di questo passo, devozionale, perché, magari in corner, per il cosiddetto ‘rotto della cuffia’, si erano salvati, e proprio, magari, in ragione di qualche pio ed estremo giuramento di eterna gratitudine alle ‘loro, santità/madonnità’ che qualche disperato genitore aveva lor gridato, se passavano, ‘ste sacre e popolari icone, in piangente/implorante processione, per le strade dello sconvolto/impaurito quartier Montecalvario, come di altre e vicine zone abitative, ugualmente abbrutite e terrorizzate dal ‘morbo’.

Qualche altro, poi, che non ‘credeva’, che nemmeno andava in chiesa, né tampoco mai faceva o aveva fatto una preghiera a qualche ecclesiale iconità, nemmeno nel suo cuore, nemmeno nell’intimo dell’intimo di sé stesso con sé stesso, in vita sua, beh, quest’’altro’, mò, se era genitore, se era ‘pato’ e se era ‘mamma’ di qualche bambinetto precettato e ‘signalato’ dalla perfida ‘spagnola, stava ai piedi del lettuccio di un suo piccolo ‘infettato’ e pregava o almeno ci provava a farlo, stolidamente ripetendo parole in litania, orazioni, invocazioni, da altri e da più saggi e devoti, consigliate, ma più spesso e volentieri, parola per parola, suggerite.

[…]

‘Lettuccio’, poi, ho detto prima! Ma quando mai?! Ma che? Ma che stronzata, ho detto?!

Le acide e impicciose vecchie del quartiere, parlando di giacigli, anzi, dei luridi e infraciditi di sudore ed altro, materassi, su cui giacevano le vittime del male, si esprimevano in ben altra e dura e cruda e quasi blasfema maniera, a tal proposito!

Esse parlavano, anzi: strillavano, ‘alluccavano’ come ossesse, per tutto il vicolo e gli altri a seguire del vicinato, non di semplice ‘letto’ o appunto ‘lettuccio’, come ho di sopra detto io, ma, bensì, di – tremendo a sentirsi! – ‘lietto pirciato’ (cioè, tradotto, più o meno, letteralmente: letto, reso marcio, reso putrido e puzzolente, dagli umori stillanti dalle carni dell’infetto, a causa della malattia).

Già! Già!

Proprio così si esprimevano, ricordo, proterve e sublimi insieme (perché ‘sublime’, aggettivo, miei cari, non sempre, anzi mai, viene a dire ‘dolciastro’ o ‘melenso’, ma, esattamente, al contrario, esso veicola il ‘tremendo’ e talvolta anche l’‘abietto’ di ciò che viene chiamato comunemente ‘sacralità’), quelle vecchie e ‘sapùte’ e ‘bizzoche’ vegliarde/custodi delle tradizioni religiose, ma date al popolo sempre, chi sa perché? sotto forme di rudi-laicistici-sbrigativi anticonformismi vernacolari, nella città inferno e paradiso, che porta il nome nefando/benedetto di Neapolis/Althenopis/Partenope!

Ecco qua: ci risiamo: perdonatemi: ho fatto di nuovo il ‘zezo’ sciattone di lunghi quanto inutili ‘excursus’ dal presente, sedicente ‘racconto’, circum-navigante, o, almeno, supposto tale, attorno all’antica ‘spagnola-febbre’, che colpì e colpisce ancora la mia città, nell’ampio arco di tempo, a ritroso o in avanti, relativo agli anni 2018-1918, ovvero 1918-2018.

DI ENZO MOSCATO IL RITRATTO IN COPERTINA © CESARE ACCETTA

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