Conversazione con Margarethe von Trotta, la regista europea presidente del Bifest

“La pluralità umana, condizione fondamentale sia del discorso sia dell’azione, ha il duplice carattere dell’eguaglianza e della distinzione. Se gli uomini non fossero uguali, non potrebbero né comprendersi fra loro, né comprendere i propri predecessori, né fare progetti per il futuro e prevedere le necessità dei loro successori. Se gli uomini non fossero diversi, e ogni essere umano distinto da ogni altro che è, fu o mai sarà, non avrebbero bisogno né del discorso né dell’azione per comprendersi a vicenda. Sarebbero soltanto sufficienti segni e suoni per comunicare desideri e necessità immediati e identici”.


Hannah Arendt, Vita Activa


Margarethe von Trotta al Bif&st 2019

Il suo cinema sfugge a qualsiasi etichetta generalista. Racconta le donne nella Storia attraverso i propri occhi, e i suoi sono occhi che sanno posarsi sulle soglie più dolorose, intimamente e collettivamente ruvide, aspre. Gli occhi di Margarethe von Trotta, la presidente del Bif&st, sono di un azzurro formidabile, specchi d’acqua mobili, pieni di luce. È molto facile dimenticarsi del cielo grigio che promette tempesta sopra Bari. La prima cosa che la regista mi dice è a proposito del suo italiano, teme non sia sempre preciso.

Ma io amo molto il suo italiano. Trovo lei parli un eccellente italiano, davvero. Me ne innamorai durante la sua masterclass nel 2015.

Mi ha insegnato l’uso del condizionale Dacia Maraini quando abbiamo scritto insieme “Paura e amore” (1988, ndr). Io sapevo già l’italiano, ma non molto bene e lei mi ha veramente insegnato ad usare il condizionale: ogni volta che adesso comincio una frase con il “se…” faccio un attimo di pausa, perché so che dopo il “se…” deve seguire una forma precisa. E così tu hai sempre seguito il Bif&st?

Sì, posso dire di essere cresciuta con il Festival, in questi dieci anni lo abbiamo vissuto tutti intensamente qui, del resto. Com’è il suo rapporto con Bari e il Bif&st?

Felice Laudadio mi aveva già invitata qui nel 1988. Ha cercato di ricreare quella esperienza. Ricordo che c’erano Marcello Mastroianni, Sergio Leone… lui sperava di andare avanti, ma poi come sai accadde qualcosa che cambiò la storia della città, l’incendio del Teatro Petruzzelli. Felice è dovuto andare via e forse non aveva più speranza di poter tornare. Però quando è tornato mi ha chiesto subito di venire, c’è sempre stata l’occasione per esserci: ho presentato un film, sono stata in giuria. Sono sempre venuta con grande piacere. Ho un grande rapporto con Bari. Due anni fa ho ricevuto le chiave della città. Mi piace moltissimo esserne cittadina onoraria. Ho detto al pubblico “Sono bavarese e sono diventata barese, una bavarese barese”. Quest’anno il Festival è dedicato ad Ennio Morricone. Tutti hanno detto che è il più grande compositore per il cinema e questa è anche la mia opinione. Io ho fatto un solo film con lui (Il lungo silenzio, 1993, ndr) ma è stata una esperienza veramente bellissima: era così pronto, disponibile, aperto e poi è davvero un genio. Mi ricordo che quando abbiamo fatto le registrazioni della musica a Sofia – perché con una grande orchestra farlo lì costava meno che in Italia – in questi tre giorni insieme lui aveva scritto la musica che non avevo ancora sentito nella versione orchestrale (li aveva suonati per me al pianoforte e in quel caso non sai ancora esattamente che respiro prendono). Erano “troppo” belle, erano come per un film di Leone ed io gli ho detto: “Guarda Ennio qui è venuto un po’ troppo patetico”. Lui mi ha semplicemente detto “Va bene” poi è andato dentro e ha cominciato ad indicare alcuni musicisti: “Tu non suoni”, “Tu devi attaccare dopo”… in due minuti ha modificato la partitura. È diventato tutto perfetto e questo mi ha molto impressionato: con una tremenda rapidità ha cambiato completamente il respiro della musica, non ha dovuto riflettere tanto per farlo. L’ha fatto.

Che ricordo conserva di Ettore Scola, presidente onorario?

Era un grande amico ma sopprattuttio un grande regista. Io conoscevo i suoi film prima di conoscere lui. L’ho incontrato nel 1987 quando sono andata a Roma per fare i miei film. Lo avevo già incontrato in qualche Festival nel mondo, ci siamo sempre guardati negli occhi e ci siamo piaciuti, sia umanamente che come due registi che si incontrano. Quando mi sono trasferita a Roma l’ho incontrato con Fellini, insieme a Felice Laudadio e abbiamo avuto sempre un rapporto amichevole. Quando lui era Presidente qui io sono venuta ogni anno ed eravamo sempre contenti di ritrovarci.

Questo sembra proprio il Festival della felicità: tutti raccontano, ricordano e dicono quanto siano felici di fare questo mestiere.

Sì, sì, è vero: è una felicità! Spesso anche una grande fatica. La difficoltà è anche legata alle paure dei momenti in cui veramente non sai cosa fare, come arrivare a fare quello che vuoi… forse è più un problema di una tedesca che di un italiano, questo. Perché, sai, anche Ettore mi ha sempre detto: “Ma tu fai sempre questi film scuri, così gravi, sei veramente una tedesca!”. Non so quindi se anche i miei colleghi italiani hanno tante paure prima di fare un film come le ho io. Con Ettore c’era anche un rapporto di amicizia, in fondo non si deve neanche parlare troppo del nostro mestiere. Con lui potevamo parlare anche di altre cose ma essere qui, insieme, era sempre una gioia. Ho saputo da Felice Laudadio che proprio Scola voleva che diventassi io la Presidente del Bif&st dopo di lui. E questo è un gesto di grande amicizia, stima. Ma forse aveva capito che doveva essere una donna a ricoprire questo ruolo dopo di lui. Pensaci, sul palcoscenico ci sono quasi sempre uomini. Dobbiamo anche pensare che ci sono donne che fanno cinema e hanno da dire qualcosa di importante. Credo tu sappia che nel sud Italia è ancora più difficile far capire questo, che le donne sanno fare questo mestiere e in autonomia.

Certo, è proprio così. È difficile fare accettare che non siamo nemmeno interessate a scendere a compromessi, che vogliamo davvero fare questo mestiere con onestà e con le nostre forze. A volte anche le altre donne non capiscono che invece c’è chi ama la propria libertà e vuole difenderla.

Sì, sembra sia sempre necessario capire quale uomo potrebbe aiutarti, devi fare gli occhi belli e questo è terribile. Perdi la stima di te stessa, io non sono d’accordo con le donne che accettano di farlo. Credo sia terribile, voi giovani dovete ribellarvi a questo… ma vedo che siamo d’accordo.

Assolutamente sì. A proposito, nel 2015 lei fu l’unica regista a tenere una masterclass dopo la proiezione del suo “Anni di piombo” (1981).

Oggi se ripenso ad “Anni di piombo” penso che per me non sia mai stato solo un film sulla situazione in Germania, sulle Brigate rosse tedesche e sul nostro passato (il film comincia con un flashback negli anni della guerra, poi continua negli anni Cinquanta fino agli anni delle Brigate rosse tedesche). Per me era anche una storia di sorelle e una storia che guardava al mito greco, ad Ismene e Antigone. lo sapevo nel momento in cui l’ho scritto che mi interessava raccontare che una sorella sceglie il potere, mentre l’altra lo rifiuta. Sì, per me era importante seguire le due sorelle: quando erano giovani una era Ismene, amava molto suo padre, era molto brava ma anche molto docile anche a scuola; l’altra era la ribelle. Una volta adulete una diventa Antigone e fa la lotta contro lo stato, l’altra non vuole andare lontano come sua sorella, non vuole fare la lotta armata, ma vuole fare una lotta attraverso le istituzioni per cambiare la società. Tutte e due hanno ancora questo desiderio di cambiare la società ma una con mezzi pacifici e l’altra con le armi: quella che era prima Antigone non voleva diventare Ismene ma non poteva andare oltre. Questo era anche il suo dramma nel film. Antigone non voleva rinunciare ad essere la ribelle di una volta e quando oggi vedo questo film, vedo soprattutto questo aspetto. Perché anche oggi ci chiediamo sempre fino a dove possiamo andare per rimanere Antigone perché ciascuna di noi, penso alle donne di oggi, tutte noi vogliamo essere Antigone e non donne che stanno dietro agli uomini, in ginocchio. Vogliamo essere ribelli ma fino a dove possiamo permetterci di esserlo?

Questo tema è tornato spesso in questi giorni al Festival. Penso al documentario di Monica Maurer “Quando Bertolucci aveva 30 anni” (1971) in cui il giovane Bertolucci dice con convinzione e disillusione che il cinema non può cambiare il mondo, può essere una struttura pararivoluzionaria, ma non può davvero fare la rivoluzione.

Sono completamente d’accordo con Bertolucci, io non ho mai creduto che si può cambiare il mondo col cinema. Il cinema se sei già su una certa strada politica ti può aiutare, può anche darti degli argomenti per difenderti, per dire delle cose. Se fai un film con questo sguardo sulla politica di un certo momento non puoi essere più che un testimone. Una persona d’azione mai, l’azione è altrove.

Può però succedere il contrario, cioè che il potere condizioni il cinema. Qual è la situazione del cinema di oggi è un cinema condizionato o riesce ad essere ribelle?

Non so se la situazione è un’altra in Italia. In Italia credo che sia molto difficile ormai fare film contro il potere. Sono necessari molti soldi per fare il cinema, dunque se sei troppo contro il potere non ti danno più niente. Questo significa che devi fare piccoli film con pochi mezzi, con amici che non paghi… possono diventare bei film ma poi non trovi i mezzi per farli girare, per distribuirli dove trovi pubblico. È anche vero però che oggi ci sono molti più mezzi per trovare pubblico attraverso Internet. Sono mezzi che non abbiamo avuto noi all’inizio.

A proposito di donne e sorelle. Parlò nel 2015 della interiorità che aveva trovato e scoperto nelle lettere di Rosa Luxemburg e che questo era un aspetto veramente molto intenso che nel tempo di oggi si va perdendo, come si perde il senso del politico come atto soggettivo prima di tutto e poi collettivo.

Sì, adesso quasi nessuno scrive più lettere e questo è per me un grande peccato perché i mezzi con cui scrivi piccole informazioni, molto veloci, mail e messaggi in chat, non possono avere lo stesso valore di una lettera in cui magari racconti qualcosa di talmente profondo e intimo che non diresti mai parlando di te con qualcuno. Quando leggi le lettere di Rosa Luxemburg ma anche di Hannah Arendt e di altri, ti rendi conto di questo valore dell’intimità. Non so che esempi potremmo fare di lettere di autori italiani…

Sicuramente ci sono le lettere di Elsa Morante.

Ecco, bene. Dicevo che nelle lettere vengono fuori anche le cose che hai segrete, solo tue, di cui non puoi parlare così, chiacchierando. Cose che puoi solo mettere in una lettera. Se tu come me devi fare un film su Rosa Luxemburg (1985, ndr) e su Hannah Arendt senza le loro lettere, sei costretta a rinunciare. Io non volevo fare su Rosa Luxemburg solo sulla politica, sulla rivoluzionaria, sulla comunista. Sarebbe stata solo una parte di un “personaggio”. Invece da quelle lettere ho capito che lei era “persona”: così sensibile, così aperta alla natura, agli animali. Pensa che aveva un gatto che amava tantissimo, con lui aveva quasi una relazione d’amore. È stato importante sapere cosa faceva in carcere per potersi impegnare: prendeva le foglie delle piante e le classificava come una studiosa di botanica. Tutto questo non si poteva vedere “da fuori”, nella sua lotta politica. Ma tutto questo fa di lei una “persona”. Al 100° anniversario della sua morte ho mostrato il film a Roma alla Casa del cinema e c’erano un grande del PCI, Tortorella, e Luciana Castellina che insieme a Rossana Rossanda ha creato Lotta Continua ed il Manifesto. Loro erano lì come spettatori e Tortorella alla fine della proiezione mi ha detto: “Questo film mostra che noi comunisti possiamo essere “umani”, che abbiamo dei sentimenti, emozioni”. Una grande visione di umanesimo, questa era la mia ambizione.

Del resto anche nel film sulla Arendt (2012) emerge la tensione verso l’umanesimo. Un umanesimo che non significa banalmente e retoricamente “amare l’umanità”. Penso il suo sia un umanesimo che crede culturalmente di dovere coltivare e difendere l’umanità delle “persone” perché il mondo possa davvero cambiare.

Ecco, è proprio così. Così è proprio come lo direi io.

Lei ama definirsi una regista europea, come la definì Klaus Eder. Che valore può avere il cinema oggi in questa nostra Europa?

C’è qualcosa di strano. Sai, all’inizio, quando non c’era questa idea di Europa, quando non c’era ancora questo circuito cinematografico per il quale è possibile una maggiore distribuzione in diversi Paesi, siamo stati molto più interessati al cinema degli altri. Mi ricordo che quando arrivava in Germania un film italiano o un film francese, noi eravamo affamati, volevamo vedere questi film mentre adesso che possiamo vedere tutto, io ho l’impressione che non siamo più così attenti. Ho fatto una ricerca in Germania, in Francia e in Italia. In tutti e tre i Paesi sono in programma prima di tutto i film di produzione nazionale, poi quelli americani e solo dopo pochissimi film stranieri. Dunque oggi abbiamo l’Europa, abbiamo questa idea di Europa che prima non avevamo, ma non siamo più interessati all’altro. Siamo diventati nazionalisti. E il nazionalismo è quello che viviamo nella politica di tutti questi Paesi. In questi anni ho sentito che siamo diventati più nazionalisti, l’ho avvertito molto prima di questi giorni. Lo trovo un passo indietro veramente terribile. Hannah Arendt parlava di tempi sinistri e bui quando pensava ai giorni del nazismo. Io credo che oggi stiamo andando indietro nei tempi sinistri e bui, ma io voglio andare verso la luce e non nel buio.

articolo di irene gianeselli

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