
Dal 6 all’11 marzo nell’ambito della stagione 2018/19 Esodi di Teatro i, debutta in prima milanese Blatte di Michelangelo Zeno segnalato dalla giuria del Premio Hystrio Scritture di Scena 2018. Blatte fa parte di una trilogia “Che affronta il divario generazionale al crepuscolo dell’Evo Moderno, alla fine della Storia” spiega Zeno e aggiunge “Il prossimo capitolo si intitola TITO – Rovine d’Europa e debutterà a giugno al Festival delle Colline Torinesi”.
Alla lettura Blatte appare come un lago ghiacciato: difficile scalfirne la spessa superficie ed allo stesso tempo difficile immaginare o capire cosa davvero si agiti al di sotto. È un testo in difensiva, che vive della distanza non solo tra i personaggi, ma anche tra chi scrive e chi legge.

Tra questa madre (Gwen), Alex, Olivia e quest’uomo (Carl) ci sono degli spazi vuoti e il drammaturgo non pare volerli riempire davvero. “Blatte è nato nell’estate del 2016 – spiega l’autore – quando la compagnia di CuboTeatro guidata da Girolamo Lucania stava svolgendo alcune improvvisazioni sul tema dell’autoreclusione. Quando hanno pensato a una produzione sono stato contattato per scrivere il testo. Ho creduto che la maniera migliore per rappresentare una persona che si rinchiude nella sua stanza fosse creare una specie di sosia fiabesco: un Doppelgänger ignaro di tutto che si ritrova chiuso in un posto che non conosce e cerca in tutti i modi di uscirne”.
Il protagonista, Alex, si ribella alla scelta della madre di volere accanto un altro uomo dopo la morte del primo marito. Il giovane sceglie allora di separarsi dalla famiglia, rifiuta di mangiare e di vivere. Vi è in questo un atteggiamento amletico, ma di riflesso: manca il motivo politico che invece è il cuore pulsante della rabbia del principe di Danimarca shakespeareano, un cuore pulsante che oggi troppo spesso si tende a leggere con superficialità. Non basta, del resto, avvolgersi in un nero mantello e accusare la propria madre di essere una poco di buono per trasformarsi in Amleto, non basta dirsi tristi e infelici come non basta fare del melò morboso per essere Ofelia. Da Blatte, che prende spunto dalla tragica condizione degli Hikikomori, ci si aspetterebbe un inquadramento diverso del problema, problema che spesso finisce persino sulle pagine dei quotidiani italiani. Il risultato, almeno alla lettura, è un testo che risolve la tensione nel sensazionalismo splatter e che si rivolge ad una resa, lo si può immaginare, più performativa che pienamente teatrale.

È questo ultimo aspetto che spinge a riflettere sulle prospettive della drammaturgia e del teatro italiano nell’immediato futuro: molte sono le compagnie e gli autori che scelgono di fare dello spazio teatrale un luogo per la performance. Il dubbio, amletico stavolta, è questo: si può ancora parlare di teatro o sarebbe più coerente in questi casi parlare di performance? Per dirla con Pirandello, ciascuno a suo modo.
Zeno scrive e inserisce anche personaggi virtuali e sceglie una formula televisiva per dare ritmo alla narrazione, spiega così le sue scelte quando gli si chiede che valore ha per lui il realismo in teatro: “Il realismo è stato una fase della drammaturgia e della rappresentazione teatrale che si è sviluppata alla fine del diciannovesimo secolo in Europa. Quindi si tratta di una definizione storica. Tutto quello che viene sviluppato all’interno di una situazione realistica nel teatro odierno è un’imitazione consapevole di quel tipo di teatro, ma non ha più quegli scopi formali. La recitazione realistica c’entra più con il cinema, dove esiste il montaggio che crea un piano di straniamento. Quindi il risultato comunque non è realistico. I personaggi virtuali all’interno del mio testo (cioè la Blatta e l’Intervistatrice) hanno la funzione di creare una breccia in questa imitazione di realismo. Parlare oggi di realismo a teatro è come parlare di simbolismo nella letteratura contemporanea, nel senso che siamo indirettamente influenzati da ogni fase storica dell’arte che pratichiamo, ma non c’è niente più di questo. Il realismo puro a teatro non esiste più”.
Il contesto in cui Shakespeare e Kafka vengono filtrati risulta essere quindi quello contemporaneo, certo, ma seguito o in-seguito in un risvolto intimo, in una dimensione psicologizzante a tratti esasperata. Siamo oltre la questione della riscrittura: siamo nella più asettica proiezione postmoderna, che altera l’originale, lo rilegge, lo fraintende e poi lo rende ambiguo, crea insomma un vuoto insondabile in cui scaraventa il fantasma ossessivo del sé che ingoia famelico il senso del teatro. La lettura personale di Zeno della tragedia shakespeareana e della storia del buon Gregor Samsa non coincidono affatto con il reale (benedetta realtà) contenuto delle opere.
Infatti così Zeno legge Kafka e Shakespeare: “Amleto crea un problema all’interno della corte di Danimarca per il semplice fatto che se ne sta solo a lamentarsi e non partecipa alla ritrovata giovialità in seguito alla morte del padre e alla nuove nozze della madre. Il problema di Amleto è che è triste, nulla di più. Certo, è un po’ scosso perché ha visto lo spettro del padre, come non capirlo. I suoi parenti, Polonio e tutti gli altri sono assurdamente spaventati dal suo comportamento. Infatti è completamente grottesco che finisca in tragedia quella che di fatto è una gara di imbecillità da parte di tutti. In realtà è come se Amleto in maniera molto metateatrale decidesse di mettere fine al testo. L’amico di Amleto si chiama Orazio, cioè il poeta preferito di Shakespeare. Amleto si confida con uno scrittore classico quindi è come se cercasse di porre fine al tutto a imitazione di un evento mitico. Sceglie di essere, ma essere è morire. E questo riguarda ogni uomo, ma forse la nostra generazione un po’ di più. O accetti lo stato di cose, o le cambi, ma questo può avvenire solo attraverso il fanatismo. Intelligenza e azione non possono convivere. La Metamorfosi di Kafka invece parla del superamento del lutto e ci mostra come la piccola borghesia riesce a ignorare gli eventi ineffabili, cioè dando importanza a cose meschine. Anche questo credo che ci coinvolga tutti. E lo dico senza nessun moralismo, ma con grande compassione”.

Non stupisce che il drammaturgo riveli di avere disegnato i personaggi, nevrotici e asserragliati in deliri di onnipotenza, senza troppe difficoltà: “Credo che sia la condizione di ognuno di noi. Quando però quello che eviti è particolarmente grosso e la traiettoria che cerchi di fare per evitarlo deve essere particolarmente larga, allora nascono dei problemi e si mette in crisi il senso. In diversa misura siamo tutti psicotici poiché ci rifugiamo in comportamenti dogmatici, cioè sacrifichiamo una parte della realtà per sopravvivere e andare avanti”.
Si diceva un testo contemporaneo. Blatte è tale nella misura in cui vi si riflette la frustrazione della generazione che lo partorisce: oramai non è il protagonista a seguire la metamorfosi in scarafaggio, ma è lo scarafaggio a dialogare, corpo e vita autonoma, con il protagonista che ormai è smarrito in un vortice di contesti e movimenti psicologici che non riesce a vivere realmente (almeno sulla carta, in scena tutto può sempre cambiare). Anche in questo caso, il senso politico del teatro cede il passo al senso performativo: sarà virtuale l’ingresso in scena della blatta che attende di godersi il fiero pasto su quel che resta di una umanità feroce con se stessa perché incapace di superare il lutto, la rabbia e la vendetta, incapace – cioè – di vivere nella società o, sarebbe meglio dire, in comunità. “Nella nostra generazione – dice Zeno – c’è un po’ di smarrimento, forse anche di sofferenza. Parlerei più di anedonismo come direbbe Mark Fisher, nel senso che siamo destinati a disattendere le promesse di felicità insite nel sogno storico dell’Occidente. Tutto il piacere che potremo provare non sarà mai all’altezza di quello che ci siamo immaginati”.
Con Alex, insomma, siamo sempre sulla soglia del drammatico senso di impotenza del giovane Konstantin del Gabbiano cechoviano: si vorrebbe fare sempre un nuovo teatro (suggestionati oggi dal fascino discreto della televisione e della crossmedialità, delle serie e dai prodotti vari ed eventuali dell’audiovisivo), ma poi si finisce per scoprire che quelle vecchie forme tanto disprezzate possono essere più moderne di quelle nuove praticate (ma non pensate) per sostituirle.
#Chièdiscena dal 6 all’11 marzo 2019
Blatte di Michelangelo Zeno
regia Girolamo Lucania
con Stefano Accomo, Francesca Cassottana, Jacopo Crovella, Dalila Reas
Habitat scenografico Andrea Gagliotta e Laboratorio Pietra / graphic&comics Alberto Ponticelli
Light design di Alessandro Barbieri / sound design di Pietro Malatesta
Colonna sonora originale Knobs Studio/ videomapping di Riccardo Franco Loiri
Montaggio video e motion comics di Alessandro Pisani
Produzione Compagnia Parsec Teatro coproduzione Grey Ladder Productions e Cubo Teatro. Realizzato con il sostegno della Compagnia di San Paolo nell’ambito del bando ORA! Linguaggi contemporanei e produzioni innovative. Testo segnalato dalla giuria di Hystrio scritture di scena 2018