Stefano Oddi (1989) da Roma è il vincitore della sezione saggio breve under 35 del Premio Internazionale di Critica Cinematografica Vito Attolini 2021 con “Miti e modelli letterari nel cinema di Terry Gilliam” per il tema “La letteratura nel Cinema”
Il cinema di Terry Gilliam è un corpus estetico multiforme e citante, fondato sulla convivenza di modelli ed echi culturali fra loro diversissimi e, al tempo stesso, su un dialogo incessante con temi e forme desunti da altre arti. Se la passione del regista per il Rinascimento, i cartoni di Tex Avery e i dipinti di Hieronymus Bosch emerge in modo chiarissimo in molti dei suoi film, attraverso un caleidoscopio di precise citazioni (audio)visive, il profondo legame che il suo cinema intreccia con la storia della letteratura si articola in una straordinaria varietà di rifrazioni e contaminazioni. La letteratura si insinua nel cinema di Gilliam in vari modi: lo informa in modo esplicito, lo percorre sotterraneamente, funge spesso da matrice generativa e, in generale, lo pervade a tal punto da trasformarlo in un vero e proprio laboratorio artistico, nel quale si sperimentano le numerose possibilità estetiche di interazione fra filmico e letterario.

Alcune pellicole di Gilliam, ad esempio, si propongono come adattamenti espliciti di opere letterarie: è il caso di The Adventures of Baron Munchausen (tratto dalla raccolta di Rudolph Erich Raspe), Fear and Loathing in Las Vegas (ispirato al romanzo di Hunter S. Thompson) e Tideland (dall’omonimo romanzo di Mitch Cullin, fortemente influenzato, a sua volta, dai temi dell’Alice in Wonderland di Lewis Carroll). In queste occasioni, Gilliam seleziona delle opere molto vicine, già in nuce, alla sua estetica cinematografica e dà vita, “semplicemente”, a un’operazione di traduzione audiovisiva degli universi visionari creati dagli scrittori.

Un rapporto di filiazione letteraria più complesso, dominato da un processo di revisione profonda e di contaminazione intertestuale dei modelli di partenza, caratterizza invece un altro gruppo dei suoi film, il cui capofila esemplare va probabilmente rintracciato in Brazil. La pellicola è ambientata in una Londra che pare ispirarsi vagamente a quella del 1984 di George Orwell (inizialmente il regista sceglie come titolo 1984 ½, così da omaggiare, contemporaneamente, Orwell e Federico Fellini). A questo modello primario, tuttavia, Gilliam mescola delle evidenti suggestioni di matrice arturiana (il protagonista sogna ripetutamente sé stesso nei panni di un cavaliere errante, o meglio, volante) e soprattutto, come riporta Paul McAuley, continui riferimenti alla poetica di Franz Kafka,[1] dalla quale il regista recupera ad esempio il tema dell’iper-burocratizzazione della vita pubblica, vero e proprio motore narrativo del film. Questa pratica manipolativa, per la quale il testo di partenza funge da materiale grezzo, liberamente riplasmato (e mescolato con altre fonti) dal regista, caratterizza allo stesso modo un film come Twelve Monkeys, in cui il modello dominante costituito da La Jetée (il noto photoroman di Chris Marker), viene contaminato, come osserva Fabrizio Liberti, con i principi della fantascienza di Philip K. Dick, caratterizzata da «una straordinaria combinazione di mondi paralleli, nei quali la distinzione tra illusione e realtà non è solo impossibile ma in ultima istanza, anche superflua».[2] In modo simile, The Grimm Brothers evita di configurarsi come l’adattamento filmico di uno specifico testo letterario e si propone piuttosto come l’elaborazione (o meglio, la condensazione) visionaria dell’intero corpus di fiabe realizzate dai fratelli Grimm, reso attraverso un caleidoscopio di situazioni narrative che rievocano frammenti eterogenei delle loro storie.

Eppure, il profondo legame che il cinema di Gilliam attiva con la letteratura supera il valore episodico della derivazione letteraria delle singole pellicole e si configura come un principio estetico che percorre in modo trasversale tutta la sua filmografia, plasmandola attraverso l’incursione di alcuni modelli ricorrenti, veri e propri archetipi letterari capaci di influenzare forme e contenuti della sua opera. È il caso di figure mitiche come Alice, Faust, Mefistofele, Don Chisciotte, Re Artù, evocati a più riprese dal regista in film anche non direttamente connessi alle opere letterarie di cui essi sono protagonisti: la propensione donchisciottesca alla rêverie informa infatti l’intera opera di Gilliam, già prima della realizzazionedi The Man who Killed Don Quixote, così come il tema dell’eterna ricerca, d esunto dal ciclo delle storie arturiane, caratterizza larga parte della filmografia del regista (si pensi almeno al Parry di The Fisher King), a prescindere dall’effettiva apparizione di personaggi ricalcati sul modello di Artù, comunque evocato esplicitamente nei primi esperimenti filmici (da Monty Python and the Holy Grail a Time Bandits).
In questo senso, tuttavia, è nell’Alice di Carroll che va rintracciato il modello che più visceralmente informa l’estetica cinematografica di Terry Gilliam: non solo, infatti, la sua figura pare materializzarsi in più occasioni nei film dell’ex-Monty Python (si pensi almeno a Sally, la bambina che accompagna il Barone di Munchausen nel suo viaggio e ovviamente a Jeliza Rose, protagonista della wonderland alla rovescia di Tideland) ma lo stesso tema della soglia, e quello complementare del suo continuo attraversamento, su cui si fonda l’opera di Carroll pare fungere da istanza strutturante degli universi filmici creati da Gilliam.[3] In ognuno dei mondi prodotti dal regista trionfa infatti una logica della liminalità per cui le soglie si configurano, al pari della Tana del Bianconiglio di carrolliana memoria, come portali di accesso verso altre, diverse dimensioni dell’esistere: così, James Cole e Kevin, rispettivamente in Twelve Monkeys e Time Bandits, tornano al passato (storico uno, mitico l’altro) attraverso dei tunnel che hanno le sembianze di banali buchi nel muro; i personaggi del faustiano Parnassus attraversano lo specchio (qui, più che mai, è palese la lezione di Carroll) del mago ambulante che dà il titolo al film per scoprire i propri personalissimi mondi dei desideri; Sam Lowry, in Brazil, diventa un valoroso cavaliere medievale ogni volta che penetra lo spazio illimitato del suo inconscio; il Qohen di The Zero Theorem si rifugia nel mondo irreale del cyberspazio per vivere il suo altrimenti impossibile idillio d’amore con Bainsley; il Barone di Munchausen è protagonista di un eterno vagare che lo trascina dai cieli della Luna al ventre di una balena, passando, senza soluzione di continuità, per il centro della Terra, abitato dal mitologico Vulcano.

Ogni personaggio appartenente al multiforme universo filmico creato Gilliam esiste dunque, come Alice, in una magica condizione di sospensione esistenziale, al crocevia di una serie, potenzialmente infinita, di orizzonti spazio-temporali, all’interno di un sistema di mondi (im)possibili in cui i confini perdono la loro connotazione di limiti all’esplorazione per riconfigurarsi come inviti all’attraversamento.
Proprio in virtù di questa sua strutturale tensione all’evasione (dal reale), alla confusione (fra reale e irreale) e alla inesausta creazione (di realtà alternative), l’opera di Gilliam sembra in tal senso tornare alle funzioni ancestrali del cinema e della letteratura (o, forse, di tutte le arti), a quella “magica” capacità di dar vita, con lo scorrere di ogni pagina e di ogni inquadratura, alle coordinate di mondi nuovi sconosciuti, nei quale perdersi e, a poco a poco, ritrovarsi.
[1] Cfr. Paul McAuley, Brazil, Londra, Palgrave Macmillan, BFI, 2014, p. 11.
[2] Fabrizio Liberti, Terry Gilliam, Milano, Il Castoro, 2004, p. 144.
[3] Gabriele Rizza e Chiara Tognolotti definiscono significativamente il cinema di Gilliam alla stregua di «un universo che appare inquadrato attraverso una lente deformante o uno specchio di Alice». Cfr. Gabriele Rizza, Chiara Tognolotti (a cura di), Il grande incantatore, Pisa, ETS, 2013, p. 6.

Dopo la laurea in “Scienze dello Spettacolo e della Produzione Multimediale” (Università degli Studi di Roma “La Sapienza”), Stefano Oddi (1989) ha attraversato vari settori dell’industria audiovisiva, occupandosi di sviluppo progetti, ripresa e montaggio video in Italia, Polonia e Regno Unito. Fra il 2017 e il 2021 ha svolto un dottorato di ricerca in “Storia delle Arti” presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, impegnato in un progetto dedicato alle reinterpretazioni contemporanee del mito di Faust fra opera, teatro e cinema. Attualmente lavora presso Wave Cinema, società di produzione cinematografica con sede a Roma.
‘Interessantissima lettura, grazie.
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