Mommy: per gli sconfitti non c’è salvezza

Elena Gebbia (1999) da Torino è la vincitrice della sezione recensione under 35 del Premio Internazionale di Critica Cinematografica Vito Attolini 2021 con “Mommy: per gli sconfitti non c’è salvezza” per il tema “Visioni emergenti: il Cinema degli Anni 2000”

“Mommy” è scritto sulla collana che Steve regala alla sua mamma Diane. È un pegno d’amore e una
dichiarazione di possesso. Steve Després ha quindici anni e soffre di un deficit d’attenzione oppositivo-provocatorio. È geloso, autodistruttivo, preda di scatti d’ira emorragici che sfociano in violenza verbale e fisica verso chiunque si trovi a portata. Durante uno di questi episodi, Steve appicca il fuoco nella mensa dell’istituto in cui vive, causando gravi ustioni a un suo compagno. Diane è quindi costretta a riaccoglierlo in casa e a lasciare il suo lavoro per accudirlo. Titoli di testa. È l’inizio di Mommy (2014), regia di Xavier Dolan.

Fra le pareti blindate di un formato 1:1, ogni quadro sembra una polaroid che racconta una storia a sé stante. Questa scelta stilistica riflette la condizione emotiva dei protagonisti, che, dopo ogni lite, devono reimparare dal principio a camminare in punta di piedi nei meandri del loro rapporto, senza mai riuscire a sfondare il perimetro limitante delle proprie nevrosi. In mezzo ai loro alti e bassi si inserisce Kyla, che abita dall’altra parte della strada e ha un serio problema di balbuzie legato a un trauma recente. Kyla è remissiva e tremula quanto Diane e Steve sono sboccati e turbolenti. Fra i tre si instaura un equilibrio simbiotico: Kyla offre lezioni private a Steve e recupera in parte il coraggio della parola, Diane trova un lavoro e degli attimi di respiro lontano da casa. All’apice della loro sottile armonia, c’è un’occasione nella quale la forza emozionale del trio si fa centrifuga e riesce a decomprimere la gabbia: il formato si allarga fino a 1,85:1, regalando un’illusione di libertà.

La peculiare solitudine che un individuo prova quando è circondato e al contempo tagliato fuori da una folla di persone, voci, stimoli, e la conseguente ricerca del contatto con un altro Sé sul quale plasmarsi e ritrovarsi, per similitudine o per differenza, sono tra i temi portanti della cinematografia del nuovo millennio. Dolan li dipana a suo modo, con una chiave d’indagine dell’animo umano che è delicata senza essere lirica, decisa ma non insistente. Steve, Diane e Kyla hanno un rapporto scomposto e non conforme, sono avulsi dall’ambiente nel quale ambientano la propria esistenza e su di loro grava uno stigma sociale che li relega ai margini. Sono tre sconfitti in partenza. Ed è proprio questo ad avvicinarli e a tenerli uniti, a smussare gli spigoli di un’incomunicabilità che però non viene mai abbattuta del tutto. La solitudine e la ricerca del contatto sono tutt’uno.

Dolan si tiene sui binari di una classica struttura in tre atti, le cui cerniere sono due momenti paralleli. Il primo vede Diane, Steve e Kyla abbracciati, che scattano un selfie per suggellare l’equilibrio trino appena stabilito. Il secondo trova le due donne che abbracciano Steve per impedirgli di crollare a terra, dopo che si è tagliato il polso con un cutter in mezzo a una corsia del supermercato. La seconda immagine è simile alla prima per composizione, e anch’essa segna un cambiamento, che però è l’inizio dell’atto finale. La madre trova il coraggio di lasciare andare il figlio soltanto quando permette a se stessa di immaginarlo diverso da com’è, di sognare per lui un futuro tanto radioso quanto irrealizzabile, in una sequenza che di nuovo espande i confini del quadro.

Il “regista ragazzino” ha uno sguardo adulto, molto più pregnante nel suo quinto film che nella sua opera prima, J’ai tué ma mère (2009), similare nei temi. La cinepresa di Mommy si prende cura della figura della madre e si astiene da superflui moralismi, anche mentre l’amore materno appare sempre più esausto. Quando Diane si lascia andare a un’esplosione di rabbia contro Steve, dopo che sono stati cacciati da una serata kararoke, è ripresa di schiena. Dolan le lascia respiro, non insiste sull’abbruttimento che parole così dure scolpirebbero sul suo volto. Mommy trova la sua cifra stilistica in momenti come questo, che godono di una narrazione trattenuta, a rilascio lento, e rivelano una nuova profondità e un potenziale innovativo nel cinema di Dolan.

Elena Gebbia

Elena Gebbia consegue nel 2020 il Diploma Biennale alla Scuola Holden di Torino, e nel 2021 la Laurea in Scienze della Comunicazione all’Università degli Studi di Torino con una tesi sulle narrazioni dei cambiamenti climatici nei media e nella letteratura. Oggi sta proseguendo gli studi con il corso di Laurea Magistrale in Strategic Communication presso l’Università IULM di Milano. Scrive racconti e ha avuto diverse esperienze come copywriter, di cui l’ultima nell’agenzia di comunicazione Bitmama. Appassionata di cinema da quando ha memoria, vi trova terreno fertile per ricercare nuove prospettive e sperimentare con la scrittura, spaziando tra recensioni e sceneggiature di cortometraggi.

ARTICOLO DI ELENA GEBBIA

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