Arriva a Bari Roberto Benigni e il Bif&st si chiude tra maschera e sentimento

Non è ancora salito sul palco, ma ha già conquistato Piazza Libertà. Benigni si fa strada con il suo inconfondibile passo, si toglie la mascherina e saluta il pubblico del Bari International Film Festival 2020. Si è sollevato un venticello ironico e sferzante, proprio come lui.

Ma chi è Roberto Benigni? Siamo certi di conoscerlo?

Chi è questo Premio Oscar che alterna grande umiltà a battute sarcastiche e anche feroci, si muove su e giù per il palco, non sta seduto che per qualche minuto, poi scatta in piedi e sembra proprio lottare con lo spazio che c’è tra lui e le persone. Vorrebbe forse superare le transenne, il suo istinto animalesco lo farebbe correre tra le file della platea, e in altri tempi si sarebbe messo a toccare, spettinare e scomporre capelli, abiti e pensieri. Ma questo è il tempo del Covid-19, e il Covid-19 sta rubando la scena a tutti, non solo a Benigni.

Ma chi è Roberto Benigni? È solo questa maschera di toscanaccio che scherza su tutto, che riesce sempre a demistificare tutto, perfino se stesso, o c’è anche un uomo, con tutte le sue fragilità di fronte alla legittima paura di ammalarsi, nascosto dietro quel sorriso aperto che parte da un lato del volto e sembra lo possa fare girare su se stesso? Cosa c’è dietro quel sorriso che ruota su un asse in costante vibrazione, che raggiunge l’ampiezza dei trecentosessanta gradi e si dà in pasto a chi lo guarda?

Sul palco l’uomo non possiamo vederlo che per qualche istante, merito di David Grieco che lo stana senza nemmeno farci notare la strategia della caccia: da bravo giornalista e regista, conduce l’amico di quarant’anni nell’intimità di ricordi familiari anche dolorosi, ma resta sempre un passo indietro, come a guardargli le spalle da un nemico invisibile.

Per prima cosa, dopo avere dichiarato amore per la città di Bari (che lo omaggia con una ampolla della Manna di San Nicola, il Santo Patrono), per i suoi attori (e nomina in particolare Donato Castellaneta e Totò Onnis) Benigni chiede una casa. La vorrebbe a Bari o in Provincia, si sbraccia per imporre questo desiderio al sindaco. La platea in festa si sente lusingata, abbagliata dalle luci. Chi vive a Bari, chi ci è cresciuto, non può che sentire il brivido della folgorazione a queste parole. Benigni chiede una casa. Esiste, proprio nella città vecchia, in Vico Fiscardi un immobile che, visto dall’esterno, se non fosse per una targhetta assuefatta dall’odore dell’olio fritto delle sgagliozze (pure queste nominate da Benigni), non si potrebbe riconoscere come l’antica casa di un altro grande uomo della cultura italiana. È Casa Piccinni.

Benigni non dice mai niente per caso, è facile capirlo anche se lo si guarda muoversi solo per pochi minuti, forse chiede una casa per invitare i baresi a guardare le proprie, a guardare la propria città. Come tutte le maschere che vivono in penombra tra umano e dionisiaco, forse Benigni, magari non consapevolmente, magari proprio alludendo a questo edificio misterioso che nessuno in città si gode da anni, vuole che il pubblico sposti gli occhi verso quel Vico Fiscardi, verso quell’uscio seminascosto dalla movida. Forse sarà la prossima conquista del Bif&st, che quest’anno aveva il ritmo delle musiche del Maestro Ennio Morricone, forse sarà il Bif&st a riaprire Casa Piccinni. Poprio come ha fatto scoprire a molti, baresi e non, il Castello Normanno Svevo (e, davvero, non stupisce nemmeno più che in così troppi ne ignorassero la bellezza). Forse sarà il Bif&st a ridare Casa Piccinni alla città.

Benigni racconta di Pinocchio, di una storia maledetta dai tanti insuccessi e di un Geppetto che lo aspettava già in America con Francis Ford Coppola, ben prima di Garrone. Parla di Nicoletta Braschi che chiacchiera con Liz Taylor, ricorda con Grieco il Sergio Citti de Il minestrone, ricorda de La vita è bella.

Soprattutto, ricorda il ritorno del padre Luigi Benigni dal campo di prigionia, le sue parole per la moglie “Ho pensato solo a te” dette prima di andare in coma dopo la Guerra vissuta nel nord della Germania e il viaggio estenuante per tornare ad Arezzo. Ricorda anche il pellegrinaggio di sua madre, che definisce una principessa, alla Madonna del Bagno con la sua sorella più piccola e tre anatroccoli lasciati come voto perché il marito si svegliasse. La povertà francescana di questa famiglia di contadini, spiega poi, lo ha ispirato per scrivere La vita è bella, la grande storia d’amore oltre l’orrore del nazismo.

Fa riferimento a Woody Allen, ad una novella del Decameron di Boccaccio (forse la seconda della prima giornata per come la descrive) che non hanno più girato. David Grieco lo incalza, ma Benigni gli risponde «Il Decameron lo ha fatto per sempre Pasolini». E quando si cerca di scoprire di più sui prossimi progetti cinematografici, Benigni dichiara, dopo un breve excursus su Dante e sulla sue terzine visionarie, che vorrebbe fare un film con sua moglie, Nicoletta Braschi: «Una commedia adatta alla nostra età, magari».

L’idillio con la Rai, Onda Libera e Televacca (che sono la stessa cosa, ma con nomi diversi) e poi il suo Fellini «grande come Kafka» e con cui Benigni ha passato il periodo del lockdown. «Ho rivisto i suoi film, è grande come Picasso, mi ha impressionato come Chaplin, come Buñuel e per me fa parte della natura. Quando è morto Fellini e me lo hanno detto, per me è stato come se m’avessero detto “è morto l’olio”. Fellini e Buñuel esprimono il Cinema come si esprime il sogno, il Fascino indiscreto della borghesia, che gran film!».

Per Benigni, il Cinema riempie le vite disadorne, poco prima aveva detto: «la cosa più importante della vita per me è il sentimento. Il sentimento è una sommità fiorita». Ricorda Sordi e Fellini, da I vitelloni a Lo sceicco bianco e il Bif&st gli ha consegnato proprio i due premi a loro dedicati dalle mani dell’amico Grieco e della Presidente Von Trotta: Premio Alberto Sordi come Miglior Attore non protagonista per Pinocchio di Matteo Garrone e Fellini Platinum Award per l’eccellenza artistica.

Si slancia, Benigni, generoso e sorridente ma non cede al fascino indiscreto della cattiveria (anche piuttosto gratuita). Della lingua tedesca, alla Von Trotta che lo ha raggiunto per premiarlo, dice che è buona per la poesia e la tortura: ma Von Trotta è una regista europea, che parla italiano e soffre per l’orrore del Nazismo al punto da avere detto, in una masterclass al Teatro Petruzzelli, di sentirsi apolide. Tutte le lingue, nella Storia, sono buone per fare poesia e torturare. Non ci saremo certo dimenticati il sangue per le strade di Firenze proprio al tempo di Dante.

Forse è vero: il Bif&st finisce con Benigni, con la sua presenza di insostenibile leggerezza ma ad onorario zero, con ventiquattro ore di anticipo. Un Festival che ha rischiato, ma che ha trovato la complicità di un pubblico che ha sempre rispettato le regole e i distanziamenti, che ha sempre avuto grande rispetto di sé e dei lavoratori dello spettacolo.

O forse i nove giorni si chiudono davvero solo con il garbo, lo spessore intellettuale del documentario Ugo & Andrea – Conversazione in falso movimento fra Ugo Gregoretti e Andrea Camilleri nato da una idea di Orsetta Gregoretti e Andreina Camilleri proiettato il 30 agosto nell’Arena del Castello Svevo. I due se ne vanno in giro per Roma circondati da una giovane troupe pur restando fermi in una Duetto rosso fiammante. È tutto un gioco di affabulazione per riportare il pubblico ai tempi di una televisione in bianco e nero, con un paio di canali e ad una Rai, un Teatro, che avevano per protagonista Eduardo De Filippo prima, Carlo Cecchi, poi. Scrivere, fare poesia, disegnare e andare di corsa senza mai schiacciare troppo sull’acceleratore, restando se stessi: due amici e le loro vita fatte di tante esperienze e incontri di cui concedono un assaggio, con pudore toccante. Altro ritmo, altri tempi.

Nell’Arena Piazza Prefettura in Pazza Libertà la serata del 30 agosto, quella conclusiva, è dedicata al concerto celebrativo di Ennio Morricone con i pianisti Gilda Buttà e Cesare Picco (in collaborazione con il Bari Piano Festival) e alle premiazioni del concorso Panorama internazionale. Evgeny Ruman è il Miglior regista per il film Golden Voices, Niels Schneider è il Miglior attore per Sympathy for the Devil. L’unica che ha potuto essere presente è Lauren Coe Miglior attrice per Nocturnal. Una menzione speciale va a Maria Belkin per Golden Voices.

 Il Festival si è chiuso come si chiude su se stessa una chiocciola, tutto ripiegato sulla città di Bari con la proiezione della versione restaurata dalla Cineteca di Bologna de Lacapagira di Alessandro Piva. Un po’ come se qualcuno avesse voluto dire al pubblico: abbiamo proiettato meraviglie, abbiamo ricordato Mario Monicelli, insieme abbiamo lanciato uno sguardo oltre i confini di Regione e d’Italia, adesso la festa e la musica è finita, si torna a casa e voi restate qui, in questa città che troppo spesso si rassegna ad essere solo un tormentone. Almeno, ci restate per un po’. Fino alla prossima volta, che dovrebbe essere dal 25 settembre al 2 ottobre (con una settimana di pre-Festival, forse), cercate di non annoiarvi troppo.

ARTICOLO E FOTO © DI IRENE GIANESELLI

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