Unhinged: in anteprima internazionale al Bif&st 2020 il film sulla violenza fuori controllo della contemporaneità

Nella seconda serata in Piazza Libertà dove è posta l’Arena ribattezzata Piazza Prefettura il Bari International Film Festival propone in anteprima internazionale la proiezione in lingua originale di Unhinged diretto da Derrick Borte e scritto da Carl Ellsworth. Una scelta intellettualmente provocatoria: il Cinema non è solo divertimento, intrattenimento ma bisogna essere preparati a questo e, forse, il pubblico non lo è del tutto. Certe volte un film sa anche costringerci a tirare fuori dallo stomaco la sensazione che proviamo tutti, nella nostra quotidianità, di essere in costante pericolo. Certe volte sa anche tirarci fuori dallo stomaco che no, questo modo di vivere con gli altri, violento e arrogante non dobbiamo accettarlo. Nella seconda serata di premiazioni Pupi e Antonio Avati ritirano il Premio Tonino Guerra per il Miglior soggetto de Il signor Diavolo e Lina Sastri ritira il Federico Fellini Platinum Award for Artistic Excellence. Giungono in video messaggio i saluti della vincitrice del Premio Anna Magnani, Micaela Ramazzotti. In video saranno anche quelli di Paola Cortellesi vincitrice del Premio Mariangela Melato, Premio che si spera nella prossima edizione possa ricevere dalle mani di Anna Melato, punto di riferimento fondamentale nella giuria delle passate edizioni.

Unhinged in italiano può essere tradotto con molte sfumature: svitato, folle, fuori controllo, scardinato, impazzito, sconvolto e squilibrato. Ma è questo un titolo ambiguo per un film dalla trama piuttosto lineare, che incalza lo spettatore con gli scatti furiosi tipici del thriller: la struttura narrativa ricorda la favola esopica per la quale allo spannung segue uno scioglimento con morale ma si tratta di un inganno, anzi, di un gioco.

Perché il protagonista, che ci piaccia o no, non è in scena. Lo svitato, folle, fuori controllo, scardinato, impazzito, sconvolto e squilibrato non è il personaggio interpretato da Russell Crowe. Nessun eroe, nessun anti-eroe, né maschile, né femminile, ma solo un pretesto per parlare della società globale, è la società globale.

Usciamo dalla metafora, sbandiamo pure: i protagonisti di questo film siamo noi.

Le tangenziali ingolfate e le villette a schiera turbate dalla violenza sono quelle americane, ma la violenza è violenza, anche quella in un paesino di provincia, per cui la Louisiana dell’ambientazione, per quanto lontana dai nostri centri e de-centri europei, non è assolutoria.

Russell Crowe penetra in un ruolo scomodo, la sua interpretazione riesce a porgere allo spettatore molteplici dimensioni semplicemente attraversandole, complice senza dubbio un talento fuori dall’ordinario ed una consapevolezza attorale matura. Tom Cooper non è solo un automobilista feroce. Le macchine, che diventano l’avatar dei personaggi prima che questi tornino a scontrarsi a mani nude, sono davvero solo il mezzo: un mezzo per esercitare un potere, per dimostrare la propria ricchezza, per umiliare gli altri nella grande competizione neoliberista e capitalistica. La seconda dimensione, quella della spettacolarizzazione dell’atto violento è parte della patologia di questo personaggio, ma è nello scardinamento della messinscena poiché questo uomo in crisi e dissoluzione è perfettamente consapevole dei meccanismi sociali indotti dai media.

Un’altra dimensione: Tom è il prodotto di questa società, di questo mondo individualista ed egoista. È violento perché ha ricevuto violenza, ma il punto è questo: Tom sceglie. Sceglie di dare al suo prossimo la sua parte di male e orrore, di sangue, alimentando una catena di sofferenze che lo rendono solo più affamato. L’interpretazione riesce anche perché Crowe gestisce fisicamente questa hybris offrendo all’ingombrante senso di fallimento di Tom un corpo massiccio, possente: in alcune inquadrature sta in scena solo con le guance e con il viso, ma riesce ad imporsi con un respiro o con un battito di ciglia o con una ruga degli occhi. La sensibilità di questo personaggio è tutta incurvata in negativo, esige le scuse del mondo, è implacabile perché ha bisogno di tornare in sé ed esprime la sua sofferenza distruggendo ciò che sente nemico perché, in fondo, non sa come e non sa se vuole davvero tornare in sé.

A volte cercare lo scontro è solo un modo per guardare in faccia la morte, per provocarla.

La sceneggiatura non è in favore di Crowe che non può per un fatto di scrittura approfondire l’aspetto più intimo del personaggio, la regia si concentra poco sugli scatti e sui momenti di solitudine atroce di Tom, ma molto, rischiando di essere vagamente didascalica, sulle reazioni del capro espiatorio: Caren Pistorius raggiunge un equilibrio profondo, anche la sua Rachel Hunter è costruita per strati e dimensioni.

Forse la sequenza più sconvolgente è proprio quello in cui Rachel è costretta a partecipare al gioco di Tom, è l’unico momento nel quale i due sembrano essere complementari, sembrano somigliarsi e toccarsi. Anche Rachel, la vittima, in questo momento cede alla violenza scaricandola su un’innocente per difendersi e allo stesso tempo vendicarsi di un torto subito.

È in questa frattura nell’integrità morale della vittima, frattura che la sceneggiatura non approfondisce abbastanza, purtroppo, che si nasconde la vera essenza dell’Unhinged: perché l’essere umano, animalesco e feroce, è in ciascuno di noi, può capitare a chiunque. Certo anche Rachel è costretta ad una scelta, colpisce però che si trovi sola, senza l’aiuto delle istituzioni, contro un demone vendicatore. Ma i demoni non portano solo l’essenza del male con sé, portano l’orrore e la crisi, costringono ad una reazione e alla scelta: si può scegliere se somigliare al proprio male o se affrontarlo. Tom sussurra, poi urla a Rachel – e Crowe sa usare la voce in modo magistrale – che vuole darle una lezione. E Rachel, costretta a scegliere chi essere per salvare il proprio sangue e la proprio carne, il figlio adolescente saggio e riflessivo (Gabriel Bateman), impara. Novantatré minuti che sfrecciano per New Orleans e ansimano e piangono e si condensano, complice il ritmo serrato del montaggio e l’impulso costante delle musiche di David Buckley stilisticamente in linea con le inquadrature che tengono i personaggi in una morsa impietosa. Sia per tecnica sia per contenuti, il film si allinea a un immaginario che emergeva già in Falling Down (Un giorno di ordinaria follia di Joel Schumacher, 1993) o nel più recente Elle di Paul Verhoeven (2016) che si struttura proprio sull’incontro-scontro violento e persecutorio tra uomo e donna.

Il regista non si allontana dalle coordinate della moralità, ma questa non è una scelta ideologica: è una scelta logica.

In una società senza valori, se non quelli del consumismo e del successo ad ogni costo, anche sul corpo e sulla carne viva del prossimo, la catarsi può essere costruita solo tornando alle radici, nel labirinto delle proprie origini: non a caso, il finale del film – che non sveliamo, né accenniamo perché in Italia Unhinged arriverà nelle sale solo in settembre – è costruito giocando su archetipi che ci appartengono in modo fisiologico e viscerale.

Unhinged: svitato, folle, fuori controllo, scardinato, impazzito, sconvolto e squilibrato è il mondo che conosciamo, che alimentiamo agli incroci delle nostre vite, nelle nostre piccole quotidianità feroci che esigono il potere, il controllo abusante sull’altro da noi. Forse, la traduzione in italiano del titolo (Il giorno sbagliato), così ambiguo e terribile in lingua originale, rischia di edulcorare e rendere banale un progetto cinematografico che, in realtà, si mostra ben strutturato ed equilibrato in tutte le sue parti. Quello di Rachel non è l’incontro casuale con un automobilista nel momento sbagliato, al posto sbagliato. Quello di Rachel, che si specchia negli occhi allucinati e metodici della solitudine morbosa e bestiale, inaccettabile e ingiustificabile di Tom, è l’incontro archetipico con se stessa, con la parte più oscura alimentata dalla iper-velocità e dall’iper-performatività contemporanea. È, cioè, un incontro con il proprio destino. 

Davvero siamo così esasperati o così smaniosi di potere e celebrità da scegliere la violenza anche nei più insignificanti gesti delle nostre vite immerse nel traffico di anime e corpi delle nostre realtà?

Good choice.

ARTICOLO E FOTO DAL BIF&ST © IRENE GIANESELLI

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