Un vecchio libro fotografico su Hollywood riportava in didascalia alle foto prese sui set dei film di maggior successo, i nomi, da sinistra a destra, degli attori immortalati nell’istantanea, famosi e meno famosi. Capitava, a volte, che per qualcuno di loro, in secondo piano, gli editors non fossero potuti risalire ad un nome e un cognome. Spiccavano anonimi interpreti, in posa per l’eternità (relativa) di uno scatto, nella foto.
La didascalia, puntuale precisava, da sinistra a destra: Clark Gable, Maureen O’ Sullivan, Don Ameche, unidentified player, Preston Sturgess.
Unidentified player.
Una specie di ufo, capitato a caso nell’ inquadratura. Mi colpivano molto, in positivo, l’attore o l’attrice, risultanti privi d’identità. Dato che il successo è l’altra faccia della persecuzione – obbligando l’interprete in galera, alla ripetizione coatta del gradito, del noto, del riconoscibile, dello stilema o caratterizzazione, o tormentone che funziona – mi dicevo “Ah, ecco qualcuno libero”: perfino da se stesso.
“Il successo può far piacere, all’inizio” – ammetteva Pasolini (che pure, concorrente allo Strega chiedeva agli amici, sempre che piacesse loro il suo romanzo, di votarlo) – “soddisfa una certa vanità, ma poi ci si accorge che non è una cosa bella, per un uomo“.
L’arma a doppio taglio della notorietà è madre di ineccepibili massacri.
E non tutti ambiscono all’incontro ravvicinato con una scure bipenne d’Eschilea memoria. C’è chi nasce con imprimatur di curia e chi irrefragabile missionario. L’uno nega l’altro?
Ciascuno ha la sua scommessa, più o meno sacra. Vogliamo dire che la sconfitta non abbia una sua nobiltà? Ammesso che l’anonimato sia una sconfitta.
Quel che dispiace, nella mortificante palude culturale italiana (fatte salve eccezioni) è la mancanza, vitale, d’un vivaio continuamente rinnovato. Per le squadre di calcio – ad esempio (lasciatemi lustrare un po’ il mio campanile) l’Atalanta – è regola ferrea e insieme aurea: cercare talenti, ovunque si trovino, anche nella più sperduta squadretta d’oratorio in provincia.
Hanno legioni di osservatori sguinzagliati in culo al diavolo, in Italia e all’ estero, l’occhio piantato su dribbling ancora acerbi, cross adolescenti, tackles imberbi, parate nemmeno teenagers. È da lì che pescano i calciatori di domani, non di rado futuri campioni.
È un valore, il ricambio. Una necessità. Non è così per attori e attrici. Nessuno se li va a pescare. Non esistono osservatori. Talenti nascono e muoiono di schianto. In questo o quel teatro, in compagnie irredente, lontano da Roma. Lampi gamma su cui non è puntato alcun radiotelescopio. E che svaniscono senza nemmeno un flash d’agenzia. Fiori che nessuno ha visto perché nessuno passava lì, dove per miracolo fiorivano. Per la stupidità d’un Paese che si cura poco dei giovani e, tra questi, quasi mai dei migliori.
Cosa si pretende, che il pesce di scoglio la faccia da pesce d’allevamento? Che si butti da solo in tasca al pescatore distratto?
Cristo sì era un dio di talent scout. Se li andava a cercare, i suoi pesci, stanati uno per uno, negli anfratti più improbabili. E se li è tirati su, con qualche sfuriata è vero, ma sempre con amore.
Abbiate a cuore, voi che potete decidere chi dove fa cosa, anche di chi nuota oltre le acque salmastre di laguna, in mare aperto. Siate curiosi degli ignoti che sfidano l’ignoto.
La vocazione di certi artisti è tanto densa che spesso li affonda, solitari, e li perde. È la stessa spinta incoercibile che obbligava Ulisse ad oltrepassare i limiti del mondo allora conosciuto.
Perché non tutto è viaggio organizzato; nemmeno viaggio avventuroso; neppure trekking solitario: è, qualche volta, esplorazione pura, a colpi di machete, apertura di nuove vie, diverse piste, differenti orizzonti. Altrimenti ci dovremo accontentare del già segnato in mappa, dei soliti percorsi, le solite vecchie, tanto comode novità, che non smuovono nulla se non qualche documento negli uffici – minima burocrazia amministrativa – senza alcuna necessità artistica. E lasciatemi dire, infine, che grave non è tanto la pigrizia della “sinistra democratica” circa un rinnovamento culturale o artistico; non la miopia d’aver eletto a pietra di paragone noti e strapagati accumulatori d’ego del tutto inconsistenti; non la ripetitività degli assunti, ogni volta smazzati come indiscutibili; ma l’aver da lungo tempo disatteso il suo mandato politico, abbandonando, ahinoi, alla destra le classi popolari più disagiate, rinunciando ad ascoltare le periferie, accontentandosi di formalità semiborghesi semigenuflesse, scegliendo un “demi monde” di salotti buonisti foderati a chiacchiere inconcludenti, alla deriva privilegiata da ogni senso di realtà.
Preferendo le prese di posizione alle prese di coscienza, il ripetere piuttosto che il dire, in un continuo sorvegliare, smussare, tener d’ occhio le eccentricità, il che ha finito col relegare la creatività individuale, quella vera, nascosta, sofferta, mal ripagata, in un limbo sospetto, sacrificata all’ordine di scuderia e all’appartenenza: quando, come negarlo, far parte, quasi sempre, pregiudica l’arte. Peccato veder finire così un ideale socialista, di giustizia, solidarietà, libertà: nell’incuria d’un graffio d’eroico long playing d’altri tempi, che obbliga la puntina a leggere, un giro dopo l’altro, solo qualche microsolco, ignorando beata, il resto (e che resto!) del disco. Ma la sostanza è una cosa, la visibilità un’altra. Non sempre coincidono. Restiamo, anonimi, contenti così.
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