Maurizio Donadoni firma Apocalypsis cum figuris in Voix.
Una scrittura nel suo farsi, pensiero di un attore e drammaturgo nel 2020. I primi due atti sono stati condivisi nell’ambito di E come Eresia: Le Rivoluzioni siamo noi?
Dopo decenni di foschie da inquinamento, finalmente in Punjab ricominciano a vedere increduli l’Hymalaya, distante 200 kilometri. Nelle capitali deserte d’ogni latitudine torna a certificarsi ancora esistente in vita, fauna da tempo solo intuita.
Daini in gita per i quartieri, oche in fila indiana che attraversano incroci (su “zebre”, cioè strisce pedonali), scimmie scorrazzano per città, sgravate di turisti, in Thaylandia.
Gabbiani a centinaia occupano centri storici, inseguono la rarità d’un passante per sbaglio. Nubi di polveri sottili svaniscono dal mondo. Da noi la pianura padana si sgombra d’emissioni; altrove, Los Angeles, svincoli a otto corsie per senso di marcia, senza più un’anima, di quelle prima contenute nei Suv.
Metropoli deserte o quasi, la cui colonna sonora ridiventano i richiami animali nei parchi, l’acqua delle fontane, il vento che si addensa e rifluisce attorno ai monumenti, e ridà alle foglie una voce, da tempo perduta, per traffico.
A casa, in forzata quarantena, dalla mia finestra ogni mattina, sul pendio di cui a forza di radici, contrasta la gravità, intravedo un grande pioppo – cava inesauribile di materiale da costruzione per calabroni e cartonaie, che ne impastano la corteccia alla chimica delle salive, per farne condominii alveari da far smarrire più d’un archistar – lo intravedo ospitare coppie di tortore, merli e congeneri tubanti, gracchianti, cinguettanti, mentre sopra la forra sul cui fondo un ruscello insiste, scavando, a comporre un’alternativa “Die Forelle”, fanno giri e giretti alcuni rapaci in cerca di bisce o arvicole.
Mi dico che la terra s’è presa un periodo sabatico. Un po’ di libertà dalla razza umana. E nonostante qualche gramo impenitente approfitti del caos planetario per deforestare ancor di più l’Amazzonia – Pacha Mama se l’inghiotta – mentre l’essere umano soffoca, la natura riprende fiato, per la prossima probabile apnea da smog e particolato.
Intanto quel che non è riuscito a migliaia di summit sul clima l’ha ottenuto senza troppa fatica un ente che quanto a dimensioni, sta a noi come noi all’Everest (se non più), affiliato a parenti altrettanto serpenti: sars, aviaria, mers, influenza suina. Un virus. Capace di trasmettersi, replicarsi e cambiare vita e percezione della vita, a colpi di febbre e di tosse.
Un protocollo di Kyoto sui generis, ben più efficace di quello in cui ci si estenuava in disaccordi, e che di fatto – ahinoi – funziona, dato che la più parte delle fabbriche del mondo – del mondo! – è ferma, né si sa quando, se o come, potrà tornare a sputar veleni.
Intesa virale sulle emissioni, al momento. Non solo, il virus ha surclassato, quanto ad efficacia nel fermare guerre e conflitti, stagioni intere di conferenze per il disarmo, colloqui di pace, risoluzioni Onu. Tutti a casa, in lockdown, terroristi e fanatici compresi. Effetti collaterali ne sono: restrizione delle libertà personali, distanziamento sociale, paralisi dei trasporti, intromissione nella privacy, controllo capillare dei cittadini, divieto d’assembramento, blocco di attività ed aziende, arresti domiciliari e, salvo altro, unità nazionale per decreto nonché prescrizione sine die d’ogni polemica, anche la più opportuna.
In pratica un Colpo di Stato, che nemmeno ai tempi di Gladio se lo sognavano: senza lucciconi di baionette notturne. Perché il virus ha reso ridicolo un po’ tutto, anche gli arsenali. Proporre, in futuro, l’acquisto di più sofisticati (e perciò delittuosamente cari), aerei da caccia, sommergibili, lanciarazzi e compagnia esplodente, non sarà facile, quando basta un pipistrello, mangiato da un serpente, mangiato da un uomo, a fermare il pianeta.
Un bel risparmio. E stiamo parlando di caso fortuito, almeno questa la narrazione al momento. A che pro mantenere aggiornato e in paga un esercito, per guerre futuribili, se tutto quel che serve a disgregare in toto orpelli, pompe e superfetazioni del mondo si riduce a 100 millilitri d’un agente patogeno ics, a lento rilascio, letale sulla distanza, in un vaporizzatore d’ambiente, lasciato sotto il lavandino d’uno dei bagni in un HUB internazionale?
Milioni in arrivo, altrettanti in partenza. Il contagio con che lo fermi, con le armi da fuoco? No, nemmeno le atomiche. Il cielo non ha confini e non c’è mascherina, di taglia terrestre, FPP1, 2, 3 adeguata a risolvere (non ce l’aveva neanche il personale sanitario, all’inizio, ad esclusione, oserei dire, di qualche dirigente, in ordine d’apparizione).
Un virus, questo si sa, non gira a vuoto ma, secondo il meccanismo azione-rappresaglia, fa il mestiere per cui è costruito (da madre natura, chi altri sennò), con aspirazioni non troppo diverse da quelle umane di base: trovare riparo, mangiare, riprodursi. E far dell’esistente regolato, dentro e fuori di noi sapiens sapiens, un primigenio caos.
Tra tante incognite che erediteremo dal cataclisma, si farà forse largo, col machete, una consapevolezza: tutto quel ch’è stato fatto, detto, scritto, composto, girato, impaginato, elaborato, trasmesso, suonato, dipinto, pensato progettato e prodotto fino all’altro ieri, da noi viventi – salvo eccezioni, ma rare – di colpo potrebbe apparire inadeguato all’oggi: se va bene un classico, viceversa non molto più d’un superato esercizio di stile.
Quando ritorneremo a consumare le vecchie tavole del gran teatro del mondo, ognuno per la sua parte, cosa ritroveremo dei ruoli che abbiamo lasciato, prima di finire tutt’uno col divano, secondo precetto dell’hashtag “io resto a casa”?
(continua)