Sebastiano Filocamo è uno dei volti del cinema d’autore italiano, siciliano di nascita, milanese d’adozione studia Lettere con indirizzo psicologico presso l’Università Statale di Milano. Spesso all’estero per lavoro ha poi vissuto diversi anni tra Providence e NY. Ha fatto il dj a Newport e in varie feste private. Conduttore radiofonico per Radio Popolare, ha anche collaborato presso la casa discografica CGD. La sua formazione artistica che inizia dall’Accademia dei Filodrammatici di Milano per giungere a vari maestri del teatro d’avanguardia europei: tra tutti Strasberg. Il suo è talento eclettico che si muove tra teatro – classico e moderno – cinema, televisione e pubblicità. Al cinema, tra gli altri, è diretto da Tornatore e Bellocchio. Si ricorda la sua partecipazione al film Premio Oscar “The Journey of Hope” di Koller, a “Tutti i rumori del mare” di Brugia, e “Anime nere” di Munzi. In scena anche con Luca Zingaretti e Paolo Rossi, il suo primo spettacolo è “Nemico di Classe” per la regia di Elio De Capitani fino a “Montedidio” di Erri De Luca per la regia di Horovitz, seguono “Bent” regia di Mattolini e il premiato “Naja” di Longoni, “Tamburi nella notte di Brecht” diretto da Solari, “La casa degli Spiriti” con la Compagnia italo araba israeliana “Afrodita”. Protagonista di alcuni video musicali tra cui “Io e la mia ombra” dei “Casino Royale” diretto da Cosimo Alemà e di lavori per Sky Arte. Da anni lavora per progetti dai fini sociali e terapici come regista ottenendo vari riconoscimenti ufficiali, usando la musica come elemento centrale del suo lavoro terapeutico e registico. Conduce anche workshop presso IED a Milano.

Al telefono la sua voce è quella di un uomo gentile. “Sto tornando in teatro e con una Orestea a cui ho dato tutto me stesso” racconta emozionato e continua “Vorrei essere come Gian Maria Volonté, quello è il mio ideale d’attore per tecnica e per struttura… capisci che intendo?”.
Non si sente nominare spesso dagli attori Gian Maria Volonté e colpisce questa citazione così precisa: chi potrebbe non pensare a film come Il caso Mattei, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, Giordano Bruno o Il caso Moro, giusto per citarne alcuni.
Rimane unico Volonté: la potenza della bellezza di un attore intellettuale che quando agisce, in scena davvero c’è. Come lui nessuno più oggi: oramai mancano i presupposti cinematografici e culturali per un attore così.
E in teatro cosa succede? Filocamo racconta il suo ritorno con “Orestea. Agamennone, Schiavi, Conversio” sull’Orestea di Eschilo della Compagnia Anagoor, vincitrice del Leone d’Argento, che ha inaugurato il Festival Biennale Teatro di Venezia in prima assoluta il 20 luglio 2018 e che torna in scena nel 2019 dal 7 al 10 novembre a Venezia (Teatro Goldoni), dal 13 al 16 novembre a Milano (Piccolo Teatro Strehler) ed il 19 novembre Trento (Teatro Sociale).
Parliamo del tuo ritorno con questa Orestea. “Io, per chi sa,/ parlo, per chi non sa, ho dimenticato…” sono le parole del Guardiano nella traduzione pasoliniana dell’Agamennone. Cosa sai e cosa (non) hai dimenticato in questi anni lontano dal palco?

L’allontanamento dal palcoscenico è stato una necessità fisiologica. Non sentivo più il mio mestiere come un atto politico e comunitario. Sono sempre stato un irrequieto in campo professionale, mi piace cambiare, cercare nuovi modi di esprimermi, linguaggi diversi, luoghi sconosciuti, altri orizzonti. Non mi è mai piaciuto attaccarmi a un carro e nutrirmi sempre dello stesso menù. Mi piacciono le sperimentazioni, le ricerche, confrontarmi con realtà che non conosco. Mettermi in discussione e non far lustro del mio curriculum. Esibirsi ad ogni costo, altrimenti gli altri si dimenticano di te, non è mai stato il mio motto. Così mi sono dato più al cinema con importanti risultati. Ho rallentato e ho guardato la vita scorrere, a volte sorpassarmi, altre comprimermi, a volte accompagnarmi accanto. Sono nato con uno spettacolo come “Nemico di classe” del Teatro dell’Elfo, prima regia di Elio De Capitani in cui tutti avevano come priorità lo spettacolo e non il proprio egotismo. Ognuno era protagonista all’interno di una coralità e la finalità era rendere potente lo spettacolo. Questa mi ha viziato e ha condotto tutta la mia carriera. L’Orestea a cui ho dato generosamente tutto me stesso e sono orgoglioso e fortunato di avere incontrato la Compagnia Anagoor e Simone Derai che mi ha voluto in questo viaggio. Un lungo lavoro di prove con compagni di viaggio giovani ma potenti e uniti, siamo stati tutti coesi. Un gruppo. La maggior parte della potenza di questo spettacolo sta molto nella grande personalità del regista, che in tanti anni della mia carriera, poche sono state le volte, in cui umanità, sacralità e intelletto fossero così profonde e trasversali e Simone è stato capace di far stare insieme anime così diverse dando un profumo e un suono unito, corale e di bellezza. Provare lontano dalle grandi città, crea un vivere insieme e un nutrimento indescrivibile. Uscire dalle prove e sentire l’odore di erba appena tagliata, odore di letame nei campi o il suono di ruscelli e montagne misteriose e il silenzio creano una sorta di magica alchimia che è difficile ricreare in altri luoghi. Dovrei ringraziare varie persone. Simone Derai e Marco Menegoni mi hanno mostrato quanta fatica (anche fisica) e sacrifici e dedizione bisogna fare per mantenere puri il proprio coraggio, la propria anima, la propria arte, il proprio cuore. In questo ci assomigliamo. C’è qualcosa di contadino, nel senso più sano del termine e qualcosa di folle e onesta poesia in loro, che è quello che mi ha fatto tornare ad amare il mio lavoro su un palco.
Prima parlavi di “ricerca”, cosa intendi? Questa Orestea in che senso è un lavoro di ricerca?
Sarò Agamennone nell’Orestea di Anagoor con la regia di Simone Derai che debutterà alla Biennale Teatro di Venezia il 20 luglio e lo stesso giorno la Compagnia sarà premiata per il suo lavoro di ricerca che compie dieci anni, con il Leone d’Argento. Quello che sapevo l’ho custodito e messo da parte e ho dimenticato il lavoro come routine. Così la Conigliera di Anagoor o la Centrale Fies ci hanno offerto quel terreno su cui piantare fiori e querce e dare a questo nostro lavoro un profondo senso non convenzionale, politico e poetico che sarebbe difficile ricreare altrove. Ho soffiato, a pieni polmoni e con l’aiuto giusto, sul fuoco di tutti i miei sensi che ora ardono nuovamente e sempre in trepidazione. Ecco, la ricerca per me è far coesistere varie discipline artistiche e linguaggi diversi in una forma armonica e non convenzionale con basi molti radicate nella conoscenza di quello che si propone con occhi non omologati. Ho avuto incontri con grandi maestri, quelli veri, con importanti registi e attori e ognuno di loro mi ha lasciato molto. Sono nomi “conosciuti”, ma non solo. Adesso sento chiamare “maestri” gente che magari ha fatto uno spettacolo di successo e poi apre una scuola e allora sorrido perché sono figlio di una generazione in cui l’arte aveva una matrice di grande merito, esperienza e onestà. Ora mi pare di assistere a una competizione di prostituzione dando credito a personaggi che non hanno valore e umiltà. Non c’è più posto per la qualità, ma solo agonismo svilente. Abbiamo fatto arricchire e diventare importanti, gente senza alcuna professionalità e merito. La televisione ha una grande responsabilità in questo disfacimento culturale.
Nelle note di regia alla vostra Orestea si legge «I Greci hanno inventato l’idea che l’essere finisca nel niente, sprofondando per sempre l’Occidente nel dolore. La filosofia nasce per portare rimedio a questo dolore che sta alla base dell’Occidente: per noi ogni cosa che muta transita per una fine assoluta, un annientamento totale che ci toglie il fiato e ci rende folli. La conseguenza tremenda di questa follia è che ogni esistenza percepisce la minaccia dell’annientamento ed è pronta a osare tutto. Eschilo, con il suo teatro che inizialmente è pratica filosofica, è il primo nella storia a dire no per mezzo del pensiero, un no assoluto a questo dolore». Davvero l’uomo deve avere paura del niente? E l’attore?

Noi siamo niente, l’unica cosa certa di questa nostra esistenza è la morte per cui avere paura è solo un modo che i poteri forti, quali le religioni, i governi, i dittatori, le banche, certe figure, hanno per controllarci, accecati perché si credono immortali. Ho avuto tanta paura come uomo negli anni passati ma ho intrapreso, da qualche tempo, un cammino in cui cerco di vivere di quello che la vita mi concede cercando di armonizzarlo dentro di me. Penso ai danni che sta facendo “la paura” del diverso in tutte le sue sfaccettature e questo mi ferisce come essere umano. Come attore ho sempre rinnegato il niente per cui non riesco ad avere paura se la mia coscienza è in sintonia con il mio vivere. Quello che ci circonda non è il niente ma è ignoranza, egoismo, ipocrisia e sono sostantivi importanti. Bisogna cominciare di nuovo a scendere per strada a difendere i nostri diritti facendo “paura” a chi ci vuole lobotomizzati. Anche come attori, bisognerebbe battersi per non restare merce di scambio disposta a tutto, data l’affluenza enorme di non professionisti. Combattere per chi non ce la fa, vedi gli artisti indigenti della Villa Piccolomini e contro la pochezza degli inutili politicanti.
Il Teatro, da quello che si percepisce leggendo la tua biografia, non è una mera consolazione. Né uno strumento. Né un mezzo, qualcosa di utile in senso strettamente materiale: puoi parlarci dei progetti con La Stravaganza?
Sono quasi diciotto anni che lavoro con persone diversamente abili, costruendo con loro una metodologia che parte dal mio percorso universitario di psicologia e naturalmente comprende tutto il mio percorso di attore. Ho iniziato al Cps di Conca del Naviglio a Milano, lavorando a fianco di uno psichiatra e musicoterapista occupandomi del lavoro sul corpo e della regia. Ho conosciuto Alda Merini e ho chiacchierato con lei alcune volte. Poi, per un periodo, mi sono trasferito a Roma per lavoro ma ho continuato a lavorare con ragazzi disabili in una scuola a Primavalle. Al mio rientro a Milano, sono stato richiamato dalla Onlus “La Stravaganza” dopo che Denis Gaita, lo psichiatra, aveva lasciato per problemi di salute. Da quel momento ho creato un laboratorio con persone diversamente abili e volontari. Ho diretto il lavoro più verso il linguaggio del corpo che diventa parola, denuncia. È stato un grande successo. Abbiamo realizzato due spettacoli che hanno avuto un grandissimo riscontro di pubblico e critica e perfino una medaglia al valore civile dataci dal presidente Napolitano. Eppure a oggi non abbiamo una sede, non abbiamo aiuti dal Comune o dalla Regione, nessun pigmalione, stiamo andando avanti solo con le nostre forze. Non abbiamo “padrini” alle spalle. Se non sei nel giro delle caste, o hai amici influenti, tutto passa sotto silenzio. Eppure i successi del lavoro svolto sono sotto gli occhi di tutti, ma siamo invisibili ai piani alti. C’è gente che in questo campo fa danni enormi perché anche senza esperienza ottiene finanziamenti e sedi. Lavorare con i miei ragazzi mi ha dato forza e mi ha mostrato come il prisma della vita si può guardare da altre angolature. Io offro a loro la possibilità di superare i loro limiti tramite la mia metodologia e il cuore e loro mi regalano affetto sincero e amore. È stato uno dei grandi insegnamenti di mia madre quello di aiutare chi ha più bisogno, di osservare gli altri e non il mio solo perimetro, di non aver mai paura della diversità. Nello spettacolo sulla poetica di De André sostenuti dalla fondazione a lui dedicata, così come in quest’ultimo spettacolo il cui titolo dice molto “Lottatori – sguardi sollevano vento” abbiamo costruito la drammaturgia a partire dalle poesie di Pier Luigi Cappello e Franco Arminio, con musiche e voci di professionisti famosi, abbiamo sempre denunciato argomenti come il bullismo, l’omofobia, i femminicidi, i razzismi, contro la guerra, le armi, sempre a favore dei diritti umani e sociali con il supporto morale di Emergency o altre importanti realtà no profit. Ho sempre pensato in grande per loro, perché di solito, quando si parla di persone con handicap di varie nature, si pensa alla compassione, allo spettacolo, permettimi il termine, parrocchiale o amatoriale. I miei ragazzi! Sono dei performer a tutti gli effetti. Per questo anche quando non faccio teatro in prima persona, lo continuo a fare in altro modo, sono in costante allenamento perché il teatro è riabilitativo per sé e per gli altri.
Parmenide ci parlava della nostra inadeguatezza di mortali di fronte all’essenza quando faceva riferimento alla terza via rispetto alla questione essere – non essere. Si può essere molte cose ma anche non essendo molte altre si compie, di fatto, una scelta. Perché il teatrante di oggi fa sempre più fatica a costruire un discorso etico-politico sul proprio mestiere e si rifugia in convenzioni?

Qualche anno fa ero a cena con uno scrittore, alcuni editori e un professore di Storia che diceva che piano piano si sarebbe arrivati ad un periodo di grande oscurantismo etico, che era inarrestabile perché ogni epoca ha le sue fasi. Questa nostra sta andando verso la sua chiusura. I segni evidenti, sono queste nuove tecnologie che invece di essere usate a favore dell’uomo sono strumentalizzate per far credere di essere più liberi… vedi i social per esempio! Siamo diventati veloci e non ci soffermiamo neppure nel nostro pensare, siamo sempre più macchine e meno umani, fotografie senza pensiero, solo esibizionismo che è contagioso, perché abbiamo paura di non essere apprezzati se siamo differenti, ma non possiamo rendercene conto perché tutto scorre veloce, se ti fermi pensi di essere escluso dal pensiero comune che qualcuno chiama “moderno”. È un inarrestabile degrado dell’etica, dove l’ipocrisia e la disonestà dell’essere umano sono contemplate nell’apparire, nel mostrarsi, e non più nell’essere o nell’osservarsi. L’essere umano è immobile e il tutto intorno fluttua a una velocità che non gli permette di farsi domande, né di mutare, ma si rifugia nel branco. Così la cultura, la scuola perdono il loro primordiale significato e diventano solo merce da mettere all’asta. Vince chi è più invidiato perché possiede beni materiali che dovrà abbandonare, e non si preoccupa del suo essere interiore che rinascerà sempre più ignorante. Il teatro non è da meno, spesso trincerandosi dietro la parola cultura fagocita solo il proprio ego, e diventa convenzionale, ma a guardar bene dentro, c’è il nulla profondo. Però il branco lo applaude e il fanatismo diventa la regola. Molti che fanno il mio mestiere, lo fanno senza il minimo senso etico, ma fortunatamente esistono le eccezioni che sono poche, rare e non facilmente conosciute.
Il mito di se stessi. Oggi più che mai è di scena l’individualismo, mascheriamo – è il caso di dirlo – l’ego insicuro con la scusa della mitologia e di tutte le sue funzioni (per dirne alcune: la forza superiore che governa il mondo e i suoi accidenti, l’uso della parola che crede di fissare anche le peggiori mancanze in un orizzonte sacro per sfuggire al giudizio e alla critica). Cosa il teatro di oggi non sa o non vuole sapere secondo te?

Il mito di se stessi offusca ogni libertà altrui. I fatti recenti del nostro governo lo mostrano in maniera palese. Tutto questo si riversa nel mondo e così nella cultura. Il teatro è per gli eroi con il cuore puro, e non sono in tanti, e soprattutto non sono facilmente riconosciuti. C’è tanta presunzione e poca professionalità nel nostro mestiere. L’umiltà in questo mestiere è confusa come debolezza. All’estero non è così, posso dirtelo per esperienza. Ad esempio in Italia non hanno capito che nelle serie TV è fondamentale non mettere nomi “popolari” e basterebbe guardare le serie su Netflix, quelle straordinarie ma anche quelle meno eccezionali, che restano mille miglia lontane dalle nostre: non hanno mai un volto o un nome conosciuto, solo attori molto bravi che arrivano da piccoli ruoli o dal teatro. C’è un grande lavoro di sceneggiatura, di analisi dei personaggi anche di quelli non fissi che noi ci sogniamo, c’è l’attenzione della regia al lavoro di ogni attore. Tutto, qui da noi, deve essere veloce, pressapochista, prepotente e questo disarma la professionalità. Noi siamo sempre approssimativi. Prendiamo un attore perché costa meno ma diamo fior di quattrini a chi ha un “nome”, la cura dei costumi in Italia la vedi in pochi film, il resto è tutto mercatini o grandi magazzini: perché il costume è diventato abito. Errore gigantesco. Si tende a risparmiare a scapito sempre della qualità. La qualità non è più riconoscibile dal pubblico. Quindi si va avanti sulla cattiva strada. Siamo stati assuefatti dalla volgarità di certe fiction, programmi televisivi, spettacoli teatrali. Gli attori veri sono anime fragili, insicure e non spavalde e arroganti come se ne vedono tanti in giro proprio perché attori non sono. Si fanno spettacoli che devono piacere al pubblico, ma di quale pubblico parliamo? Se fai qualcosa controcorrente rischi di diventare invisibile. Non si chiama un attore perché possa interpretare, si chiama un attore per com’è, o per il nome che ha infischiandosene se è giusto o no per quel ruolo. Risultato: il nostro teatro e il nostro cinema sono schiavi della quantità a discapito della qualità, dell’ottusa presunzione di chi investe e della cecità di chi si vende per un quarto d’ora di fama. Questo è un problema politico oltre che sociale. I fondi sono sempre meno e mal distribuiti e di conseguenza ci si adegua e l’arte muore. Ma il pubblico applaude ogni sera, e non sa che è solo un numero e non una forza. Hanno reso la cultura una colpa, demonizzato gli “esperti” ed elevato l’ignoranza a virtù. Tragedia in atto.
ARTICOLO DI IRENE GIANESELLI
*Quest’articolo è stato pubblicato in una prima versione su Oubliette Magazine il 18 luglio 2018
© Giulio Favotto per le foto di Orestea