Raccogliere e Bruciare (Ingresso a Spentaluce): Moscato tradisce e re-inventa Spoon River

Raccogliere e Bruciare” di Enzo Moscato è andato in scena dal 9 all’11 giungo al Teatro Galleria Toledo in occasione del Napoli Teatro Festival Italia 2017.

Neapolis diventa Spentaluce, cenere e lapilli dopo l’ultima eruzione del Vesuvio ed Enzo Moscato trad’inventa (tradisce, inventa, ma conserva, raccoglie e plasma come un demiurgo veramente ispirato) l’antologia di Spoon River. Un’operazione ardita e intensa: la cultura partenopea diventa filtro per quella anglosassone nella tensione di un Novecento italiano-europeo irrisolto che si proietta nella contemporaneità. La lingua è quella napoletana piena e corrosiva che è subito un altro personaggio.

Moscato coinvolge un gruppo numeroso di attori, li dirige come fossero musicisti verso una dimensione corale autentica a cui lo spettatore è ormai poco abituato e li fa agire in un cimitero tra l’onirico e il materico che palpita e si ribella e ritorna come una espiazione.

Un teatro fatto di strati di conoscenza, libero e in continua evoluzione come racconta proprio Enzo Moscato in questa Conversazione.

Qual è stata la genesi di Raccogliere e Bruciare?

Quando mi chiama un Festival io mi chiedo: ora che devo fare? Dò un pugno nello stomaco al pubblico oppure faccio una cosuccia senza infamia e senza lode dove viene fuori l’artista con quarant’anni di teatro? Penso Raccogliere e Bruciare sia stato accolto bene perché mi sembra che la gente in massima parte abbia capito lo spirito dell’operazione. Mi è capitato spesso di incontrare parecchie persone che a partire da un frammento testuale o teatrale hanno cominciato a fare un lavoro su di sé e sono state meglio nel quotidiano: alla fine il teatro dovrebbe avere questa funzione catartica anche per chi lo fa. Più lo fai e più ti accorgi che sbagli e questa è una cosa straordinaria, almeno è quello che succede a me. Io non sono convinto mai. Quando metto la parola fine a una cosa dico “Avrei potuto lavoraci di più, non era quello che volevo…”. Entro in una cosa con dei dubbi e ne esco con dei dubbi… questo è sacrosanto perché se non puoi fare più nulla, se non hai dubbi, proponi solo una macchina di te stereotipata che magari ti fa fare pure soldi… ma tu dove sei? Questo è il discorso, ed è un discorso molto complesso, che ha a che fare con la tua etica di artista. Raccogliere e Bruciare è un lavoro fatto in solitudine che va in scena per un’occasione, quella del Festival, e ho cercato di concertare questo pensiero che mi tormenta da tanti anni: lavoro da vent’anni su Spoon River e spero che venga fuori una edizione che faccia conoscere al pubblico la testualità da cui sono partito, il lavoro che ho fatto. Io non pubblicherò il testo teatrale perché è un copione: ho adattato le parole agli attori, le musiche… però la radice prima di questa operazione sono gli ottanta frammenti che ho trad’inventato dai duecentotrentasei frames originali. Poi c’è la musica che è un altro testo insieme alle luci di Cesare Accetta. In scena c’è una folk singer, Enza di Blasio, che dal vivo canta delle canzoni scritte per lo spettacolo e una colonna sonora che è anche il racconto della mia vita: da Bob Dylan a Marlene Dietrich. Ho scelto questo e non altro perché si trattava di Enzo, di andare indietro con la memoria agli anni in cui io mi sono formato, in cui ho sperato, in cui ho sognato, se faccio questo lavoro è anche per loro. In napoletano c’è solo una canzone, Padrone d’ ‛o mare di Franco Ricci perché è il mio ricordo di ragazzino del Festival della musica napoletana che oggi non esiste più e non ha nulla a che vedere con l’orrore neomelodico.

Mi sembra che questo spettacolo frantumi felicemente la postmodernità superficiale con cui oggi si tende a fare giustificazionismo.

La mia è stata una educazione umanistica (mi sono laureato in filosofia e l’ho insegnata per un po’ di tempo) inoltre la nostra generazione, quella mia e di Ruccello, è stata sempre un po’ critica rispetto a certe terminologie. Adorno, la Scuola di Francoforte, Marcuse, hanno accompagnato la mia formazione anche umana e io diffido sempre delle terminologie che lasciano il tempo che trovano. Eppure il mio teatro passa come innovativo, come sovversivo rispetto a quelli che sono i canoni ma a volte penso di essere davvero molto legato alla tradizione teatrale napoletana. Certe volte mi sembra di tradirla perché sono nato in un certo tempo, e per altri versi mi sembra di essere in linea con qualcuno della grande tradizione teatrale che mi ha preceduto. A questo proposito tra le varie critiche che ho letto c’è chi mette in relazione la mia condotta scenica napoletana con Viviani, con Eduardo, per la dimensione da varietà che indubbiamente è presente anche in Raccogliere e Bruciare: apparentemente si parla di un ottico, di un marinaio, di una eruzione e Napoli diventa Spentaluce… ma io voglio essere libero, guardo le cose con un ragionamento mio, un’alchimia mia (e quando parlo di alchimia ripenso al grande Rimbaud). Bisogna stare in guardia da queste chiusure del linguaggio e del discorso: si è tutto e contemporaneamente nulla. Insomma un artista deve essere libero non soltanto dalle correnti di pensiero che possono influenzarti e anche imbrigliarti, ma anche politicamente ed economicamente.

Tornando alla trad’invenzione, cos’è?

Non essendo un traduttore professionale, che di fronte a un testo letterario originale deve tradurre tutto, io traduco ciò che mi piace e ciò che in qualche modo alla lontana e inconsapevolmente già destino a un’operazione teatrale. Io sono un artista napoletano nel senso più ampio del termine, non rinuncio mai alla nostra parlata per cui scelgo ciò che mi interessa, ho messo da parte quello che nel testo era troppo anglosassone, troppo protestante. Ho fatto parecchie trad’invenzioni anche per altri artisti, per altri registi, non sono nuovo a questa situazione di scrittura: è una situazione che aderisce in parte al plot originale ma che lo tradisce anche, perché sei tu a farlo e non un altro e quindi metti il tuo umore, la tua linfa, il tuo modo di vedere il mondo.

Raccogliere e bruciare è formato da molti strati che diventano compatti, un’unica materia.

Capisco cosa vuoi dire, ecco, quella era la finalità. Perché è chiaro che muovendoci su Spoon river che è un libro di epigrafi, alla fine viene fuori un’idea, una fotografia dell’America dell’Ottocento. Il libro esce nel ’16, però i morti di cui si presentano le epigrafi, i ricordi e le memorie vengono da un tempo molto più lontano quindi ciascuno di questi frammenti va individualizzato e giocato su una personalità d’attore, di luci, di corpo e poi il discorso scenico deve trovare in questa molteplicità una sua unità. Il mio tormento è stato questo: lavorare sul singolo frammento, sulla singola attorialità cercando poi di pilotare tutto questo verso una soluzione finale che è quello che hai detto tu.

Questo è uno spettacolo con una compagnia numerosa in un momento in cui fare teatro di compagnia è quasi impossibile economicamente parlando. Cosa significa fare teatro oggi?

Oggi è difficilissimo se non impossibile fare teatro: la moltitudine di teatri che un tempo c’erano e la moltitudine di fonti di sostentamento sono scomparse, c’è una desertificazione anche degli spazi che esistevano negli anni Settanta, Ottanta: ci sono delle grosse polarità (i cosiddetti teatri stabili) che ovviamente fanno clientela, si orientano verso un non discorso dell’educazione teatrale del pubblico e quindi al di là del risultato più o meno riuscito di uno spettacolo l’intenzione di fare teatro è un atto eroico in sé e per sé. Ci sono eccellenti colleghi che non fanno più teatro e fanno altro perché trovare oggi qualcuno che vuole scommettere sul fatto teatrale produttivamente e anche culturalmente è difficile… poi parliamo di un certo tipo di teatro: invece di fare Spoon river riscrivendola e reinventandola avrei potuto fare qualsiasi altra cosa che mi avrebbe assicurato il successo immediato. A distanza di quarant’anni mi domando perché ho fatto questo cammino piuttosto che un altro: perché è dipeso dalla mia indole, dal mio temperamento. La mia adolescenza, la mia giovinezza non sono state proprio nei canoni che ti puoi aspettare da un giovane, ho sempre scelto cosa leggere e perché e anche ai miei allievi dico di andare per le bancarelle in cerca di miracoli, edizioni antiche: le librerie oggi hanno abdicato il loro ruolo culturale, in libreria trovi solo roba di gente che compare in televisione e poi scrive.

A proposito di giovani, come sono quelli di oggi?

In generale oggi i giovani sono più propensi a chiudersi e a farsi imprigionare piuttosto che tentare di rompere le sbarre, ci sono tanti motivi a monte di questo atteggiamento. Per me parlano e discutono di cose per cui mi chiedo “Ma la sostanza dov’è, l’essenza delle cose dov’è?” vivono un tempo giocato tutto sull’apparenza, sull’apparire, sul sembrare piuttosto che essere. Per noi era diverso, appartengo a una generazione diversa che ha anche sognato un mondo diverso e per questo qualcuno di noi ha dovuto andare alla radice del male, poi è finita come è finita e lo sai anche tu… però almeno noi aspettiamo ancora una sollevazione. Perché la gente non si indigna?  Io, vedi, parlo poco di teatro in realtà, parlo di altre cose e il teatro è la risultante di queste altre cose. Ma com’è possibile che la gente non protesti per il fatto che non riesce a portare un figlio all’ospedale o perché scopre che in ospedale ci sono le formiche? Per le cose essenziali della vita per cui bisognerebbe fare non una ma trecento rivoluzioni la gente si chiude in casa e questo a me pare strano. Ora, guarda noi. Abbiamo fatto questo pezzo per tre giorni, poi non andiamo da nessuna parte: il teatro di ricerca qui nasce e qui muore. Lo vogliamo chiamare teatro di ricerca ma secondo me è un arbitrio: il teatro o è questo o è nulla e non ha una destinazione. Questi sforzi dove vanno, come possono poi nutrire uno spirito nazionale, come possono unire le nuove generazioni o spingere un ragazzo o una ragazza oggi a dire “Voglio dedicare la mia vita al teatro”? Attenta: dico teatro non dico le scemenze dorate della televisione, perché molti scambiano diplomarsi alla Scuola per poi in realtà, alla prima occasione, fare la telenovela. Dedicare la tua vita a uno scopo è diverso: tutti questi grandi attori che abbiamo avuto nel passato erano grandi perché avevano dedicato la loro vita intera al teatro. Ne ho conosciuti tanti ma pensa ad una come Mariangela Melato, lei faceva i grandi film però poi si dedicava tra un film e l’altro a delle massacranti tournée di teatro perché era divorata dal demone del teatro. Queste personalità oggi in Italia non possono più venir fuori, perché non sono più libere e lei era libera di fare questo e di fare quello. Il demone del teatro si mette contro il potere e contro le cose contenute perché altrimenti sei un piattino che piace a tutti però… trasmettere questa idea contemporaneamente di teatro e di spettacolo ad un giovane è fondamentale, ne va della nostra società futura e questo è un grande problema che non si pone nei ministeri, nei teatri stabili, ma che si pongono solo gli artisti. Io me lo pongo al di là dello spettacolo: ho fatto la mia operazione di anima ed era quello che interessava a me, era un fatto mio… ma mi pongo il problema al di là dello spettacolo. Qui riemerge il vecchio professore di etica e di filosofia: una formazione di coscienza nel mio mestiere è indispensabile. Ecco perché ti dico che tutto dipende dall’indole del soggetto che fa teatro o che si impegna in una determinata cosa: per il giornalismo, non avremmo mai avuto una Oriana Fallaci in Italia se per nostra fortuna non ci fossa stata un’indole che ce l’avesse creata. Io sono dentro il teatro e guardo a questo, però vale anche per come uno svolge un impiego, per le sue aspettative. Oggi per tante cose penso che siamo di fronte a una società di anime morte.

Raccogliere e bruciare, già nel titolo racconta un rito. Quello dei vivi che conservano e ricordano, bruciano le pire degli eroi nei miti omerici.

Vent’anni fa Co’stell’azioni’ anticipava questo rapporto vivo-morto che è un tema alla Cocteau. Per esempio qui quella questione “Ma sono morti o sono vivi?”, è una questione fallace perché non c’è bisogno di morire fisicamente per essere morti! Per questo io lascio i personaggi con tutta la loro libertà sguaiata certe volte, altre volte sublime, di dire la loro vitalità. Per questo sono fastidiosi, in scena abbiamo solamente un velo di polvere in faccia e siamo tutti dei falsi vivi e mi piacerebbe anche dire dei falsi morti perché così si aprirebbe uno spazio di ottimismo futuro: alla fine il teatro, lo spettacolo per me, è un atto di preghiera, alla fine è un’orazione e allora un aldilà dal pianto quotidiano (non sto parlando di un aldilà metafisico, neoplatonico dove le anime belle vanno a mettersi in fila), un aldilà che sia altrove rispetto dell’ordinario, piatto, brutale, sconcertante, e senza consolazione, esiste? E se non esiste lo possiamo inventare? Secondo me l’interrogativo dello spettacolo è questo. Lo penso sempre quando chiudo lo spettacolo con l’ultima battuta: «Vi dissi proprio io che quelle vette – ricordate? – / quelle cime sopra nuvole giacenti sotto ad esse come un mare…/ quelle vette…/ […] Insomma, tutte quelle cime son creazioni: poemi, calcoli, pensieri, che fondono le nubi e vanno in alto. / Allora, io vi chiedo: Che cosa se ne fa l’immenso Dio di montagne da vertigine – che pur Egli ha fondato!- / a fronte delle altezze raggiunte da quei geni, che slanciandosi superbe oltre i cieli, fanno quasi ombra / oltraggio, a quanto di sublime ha fatto Lui?»
Forse un ragazzo o una ragazza di vent’anni, come è successo a me, è tutto preso dalla vita in pieno germoglio e crede nell’immortalità. Giuseppe Affinito (che ha proprio vent’anni) lo dice con il suo personaggio ad un certo punto nello spettacolo.
Soltanto il teatro può ragionare su questo aldilà della cecità dei nostri giorni, esiste solo il teatro come possibilità di fuga ma attenzione, però. Perché esiste il teatro solo se è libero. Imbrigliare il teatro a una legge non è cosa, lo diceva anche Leo de Berardinis, il teatro è libertà pura: come facevano i girovaghi del Seicento così dovremmo fare noi.

Articolo* di IRENE GIANESELLI

FOTO DI SCENA © SALVATORE PASTORE

*Questo articolo è stato pubblicato su Globalist.it in una prima versione il 28 giugno 2017

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