Matteo Garrone al Bif&st 2024: l’incontro magico con il pubblico di Bari

Poco prima di salire sul palco del Petruzzelli per la sua masterclass, Matteo Garrone mi ha sorpreso. In uno di quei dialoghi spezzati che noi giornalisti rubiamo agli ospiti (dialoghi un po’ anarchici perché interrotti sempre da qualche maschera) il regista mi chiede e si chiede: “Chissà se sono ancora vivi gli agnellini pugliesi che compaiono nell’ultima scena del mio Pinocchio… non penso, si andava verso la Pasqua e sono già passati tre anni”. La frase è di un candore a tratti mostruoso. Poco dopo, ho sentito di nuovo il cuore tremare quando David Grieco, moderatore dell’incontro con Garrone, ha letto Profezia (1964) con una intensità scevra da qualsiasi retorica. In quei versi, Pasolini dichiara che gli Alì dagli occhi azzurri “porteranno con sé i bambini, / e il pane e il formaggio, nelle carte del lunedì di Pasqua”. Ecco che torna la Pasqua degli agnelli, il senso di un sacrificio, qualcosa che – si creda o meno – è fatto storico, matrice culturale e quindi anche politica.

Così ho avuto la certezza che Garrone sa esattamente quello che fa: lui parla di magia a proposito dell’accoglienza che riceve dal pubblico barese (la migliore della sua carriera, dirà commosso) e parla di magia anche per definire il processo di lavorazione del suo film. Persino il fatto che il protagonista è riuscito a fare il provino nonostante sé stesso per Garrone è magia. Seydou Sarr non vuole fare l’attore, vuole giocare a calcio, ma grazie alla sorella riesce ad arrivare all’appuntamento per il casting. È in ritardo e così viene congedato, ma quando torna indietro per recuperare le chiavi di casa che ha perso nell’attesa, viene invitato a restare per fare comunque il provino… che avventura, anche questo è già mito! Garrone dice magia e sta indicando, in effetti, una sacralità che è insita nel lemma: sono i Magi, i sacerdoti, i depositari di un incanto mistico che non si può spiegare razionalmente.

Si tratta, certo, di una sacralità che oggi non ricordiamo poi così bene, ma che Pasolini conosceva eccome (e anche il giovane Marx). Per cui a Grieco va il merito di avere, con forza, contestualizzato rispetto a Io capitano i versi dell’intellettuale che è oggi strumentalizzato dalla destra e tollerato (come sempre, no?) dalla sinistra in questo infernale qualunquismo che ha colpito e che colpisce tutti, anche gli insospettabili, cioè quelli che sembrano schieratissimi, pronti a stare dalla parte di chi vince. E no, ha sottolineato Grieco, Pasolini non era un veggente: conosceva esattamente il fenomeno migratorio della propria contemporaneità perché il Novecento fu tutto un complesso di dinamiche migratorie, perché ce ne dovremmo dimenticare proprio noi?

E a Garrone va il merito di avere offerto, con estrema grazia, una lezione lunga più di un’ora a un pubblico attentissimo, una lezione davvero magistrale di dignità e coerenza in un tempo di proclami e di urla: perché dire la politica non sempre significa farla, mentre pensare prima di agire è già azione. Per Io capitano Garrone ha lottato e ricevuto dei “no” istituzionali e informali, ha pazientemente atteso otto anni per girare questa storia (voleva essere sicuro di raccontarla con onestà) e non si è soltanto messo negli occhi dei protagonisti. Ha lasciato che fossero i loro corpi a guidare il film, in uno sforzo che definisce di “co-creazione”, sospendendo la sua sceneggiatura per permettere agli attori, persino alle comparse, di esprimere la testimonianza della migrazione nella loro lingua (Wolof). Non ha nascosto le torture, il dolore, le perdite e la violenza sui corpi, nelle menti e fino a quello spazio che non riusciamo a definire e che chiamiamo anima.

Che bella lezione ci ha dato Matteo Garrone quando ha suggerito di ascoltare i giovani perché sono il futuro, quando ha insistito chiedendo di renderli sensibili e di cogliere l’esempio dei professori che hanno proposto il film nelle loro scuole (non soltanto in Italia). Sembrava un monito, quello di Garrone: ha indicato di ascoltare i giovani in una terra che sa essere molto crudele con loro, perché li spinge ad andare altrove, a rinunciare, a farsi da parte o, peggio, a tacere. Se solo Garrone sapesse! Ma evidentemente sa.

Il sorriso del regista non è quello mellifluo e ipocrita delle promesse non mantenute, ma è quello sincero di un uomo che guarda il presente, che ha studiato il passato, per esempio quello Neorealista (fenomeno culturale, quindi politico, ancora oggi “tollerato” e spesso soltanto opportunisticamente saccheggiato). E infatti, quando in Io capitano una madre vola nel deserto durante la marcia terribile (non dico di più per non anticipare troppo del film) è impossibile non pensare alla scena finale di Miracolo a Milano (De Sica, 1951), ma è giusto che questo accada: siamo tutto ciò che abbiamo amato e se narrare è resistere, allora narrare è anche mettere in salvo la magia che qualcuno prima di noi ha elargito a piene mani.

E se il cinema torna a essere lo spazio sospeso, magico, nel quale è possibile scegliere l’umanità prima del profitto e del potere (anche prima di quello individuale meschino), allora forse non tutto è perduto.

ARTICOLO DI IRENE GIANESELLI

FOTO © COSIMO FORINA

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