Luigi Palma (15 luglio 1996) dalla Puglia vince la sezione recensione del Premio Internazionale di Critica Cinematografica Vito Attolini 2020 con l’elaborato “Visioni emergenti: La terra dell’abbastanza dei fratelli D’Innocenzo” scegliendo il tema Visioni emergenti: il Cinema degli Anni 2000.
Per quanto quello del realismo di periferia annesso alla malavita possa considerarsi un sentiero «abbastanza» battuto e calpestato nell’ultima decade, tra quelli “di genere” della cinematografia nostrana, i fratelli Fabio e Damiano D’Innocenzo sono riusciti a dire la loro e a proporsi (o imporsi?) nel panorama esordiente, con un film sorprendentemente già maturo (uscito nelle sale nel giugno 2018 dopo circa sei anni tra scrittura, ricerca di una produzione, riprese e montaggio).

I due autori sono romani (classe ’88), cresciuti a pane e Gomorra, figli dunque di prodotti audiovisivi enfatici. Restando sul pianeta Garrone, hanno collaborato a soggetto e sceneggiatura di Dogman che ha fatto incetta di premi e plausi della critica, uscito nelle sale appena qualche settimana prima de La terra dell’abbastanza. Il legame di parentela che salta subito all’occhio tra i due film è riconducibile all’ambientazione: un’indefinita ed estrema periferia di Roma. Ma dovremo cercare altrove affinità più profonde.
Lungi dalle raffigurazioni sollimiane del crimine (ACAB e Suburra), dominate da forze centripete che contengono l’azione nell’abbraccio del Gran Raccordo Anulare, la pellicola che meglio di altre può instaurare rapporti viscerali e parallelismi con l’esordio dei D’Innocenzo è «extraGRA», ambientata ad Ostia è Non essere cattivo del compianto Claudio Caligari. Il crimine qui rappresentato è lontano dai palazzi del potere, è radicato nel tessuto suburbano, è più atavico. È, addirittura, una delle componenti organiche dell’humus dal quale germoglia nuova vita. Ecco fiorire le figure di Vittorio, stesso nome dell’Accattone di Pasolini, e Cesare nomen omen della Città Eterna. Ragazzi tra le periferie come germogli tra le rovine. Sembra ancora di percepire intatta l’onda lunga della denuncia pasoliniana e dei suoi ragazzi di vita.
Sì, oltre sessant’anni dopo. Pasolini non può non rappresentare il modello archetipico, il punto di partenza per i fratelli D’Innocenzo. Entrambi i soggetti prendono spunto dalla realtà che tanto Pier Paolo tra le borgate nell’Italia del boom economico quanto Fabio e Damiano a Tor Bella Monaca – in tempi a noi più recenti – hanno vissuto ogni qual volta varcavano l’uscio di casa. Con la discriminante che Fabio e Damiano in quella realtà ci sono nati: con la consapevolezza che i due protagonisti del loro film avrebbero potuto essere loro. Ciò che è certo è che il filo rosso, non si potrebbe meglio definire, che collega questi titoli a La terra dell’abbastanza è il sangue che scorre, tra cronaca e set, nella Capitale. Sangue che denuncia una realtà sporca, dolorosa, illegale, amorale tanto da rasentare il paradosso, eppure in qualche modo paradossalmente necessaria.

Mirko (l’esordiente Matteo Olivetti) e Manolo (il già rodato Andrea Carpenzano) sono due ragazzi poco più che maggiorenni. Si conoscono da tempo e non hanno segreti, vengono presentati sin dalle prime battute come un’affiatata coppia, verace e vorace. Assoldati da un clan della malavita, verranno fin da subito messi alla prova e, muniti di pistola, diverranno sicari freddi e allo sbando, cani randagi ma zelanti da sguinzagliare a comando ora per un avvertimento, ora per un regolamento di conti. Riescono bene nel fare del male; ciò li porterà a guadagnare «abbastanza» per potersi permettere un certo lusso: scarpe nuove, smartphone e computer, frigo pieno di spesa… Lusso che, però, non corrisponderà a benessere. Quanto verrà offerto loro sarà «abbastanza» per comprare le loro vite, per spingersi oltre il limite della sopportazione, per raggiungere le vette rarefatte e asettiche dell’indifferenza, per continuare a vivere in quella che è diventata ora una periferia anche morale. Il film è pervaso da scene e intere sequenze volutamente disturbanti, immediate, crude e scippate all’edulcorazione che invitano – non senza una certa pressione emotiva sullo spettatore – a immergersi fino al collo nel torbido liquido narrativo, nel ridondante (eppure in qualche modo lirico) turpiloquio romanesco. I personaggi spesso di spalle sono tallonati dalla macchina da presa, pedinati per poi essere ingabbiati in inquadrature ravvicinate, in primissimi piani e dettagli di notevole eloquenza. Il tutto raffinatamente controbilanciato da ampie vedute, in campi lunghissimi o chirurgiche panoramiche, utili a farci esperire quell’inferno così chiuso in sé e allucinato simile al Saturno di Goya che divora i propri figli. È possibile ravvisare una certa tensione formale (merito del contributo di due maestri come Pietro Carnera alla fotografia e Paolo Bonfini alla scenografia) che mira a raggiungere tra abbagli, sfocature e contrasti giorno/notte, un’atmosfera di straniamento e sospensione (che è anche sospensione di giudizio sui personaggi). Anche questi aspetti contribuiscono a rendere visivamente una terra ancor più anonima e vaga (come, d’altronde, annunciato dal titolo). Una terra in cui un intero ceto sociale dimena le proprie esistenze.
Luigi Palma ha conseguito nel 2020 la Laurea Magistrale in Scienze dello Spettacolo all’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro” con una tesi su Sergio Leone e lo «spaghetti western». È stato membro della Giuria Ufficiale Sezione Venezia Classici della 76^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. I suoi testi compaiono in numerose antologie, ha partecipato con successo ad alcuni tra i più prestigiosi concorsi nazionali di scrittura creativa per giovani e nel 2015 partecipa con una sua silloge all’antologia poetica “Marin” pubblicata da Aletti Editore. È il vincitore del Premio Cat 2019 per la sezione Miglior recensione categoria Tweet. Nel 2020 è stagista del Bif&st. Ha ideato e cura il format “I Cinenauti”, contenitore di informazione e curiosità sul mondo del Cinema e della TV, in onda su Radio Amicizia – InBlu.