N-Capace di Eleonora Danco: ellissi di comprensione

Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere / con te e contro te; con te nel cuore, / in luce, contro te nelle buie viscere; // del mio paterno stato traditore / – nel pensiero, in un’ombra di azione – / mi so ad esso attaccato nel calore // degli istinti, dell’estetica passione; / attratto da una vita proletaria / a te anteriore, è per me religione

Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci, IV

N-Capace è un tuffo verticale nelle contraddizioni, nella sospensione e nella fatica dei giovani e degli anziani di costruire una propria dimensione nella società. La fatica dei giovani che devono diventare anziani e degli anziani che sono stati giovani.

Eleonora Danco è con sé e contro sé, con la sua generazione e contro la sua generazione, con la generazione precedente e contro la generazione precedente e in questo contrasto si muove una donna, sacerdotessa di un culto pubblico che contraddice l’umore privato,  Anima in pena, che cerca di trovare pace, di comprendere il conflitto inespresso con la madre morta scavando nell’animo del padre, vagando nei luoghi dell’infanzia e della maturità: da un lato la Terracina agreste, dall’altro la Roma abbagliante e grigia, elettrica. A tratti morettiana, l’operazione straniante della Danco risulta perfettamente riuscita, merito anche delle musiche di Markus Acher inserite come una lama in questo lucido delirio post-moderno che cita Buñuel e rotola tra pomodori e décolleté.

Eleonora Danco è regista e interprete del proprio flusso di coscienza, eppure Anima in pena non si mette semplicemente a nudo, non esorcizza le proprie maschere, piuttosto il personaggio nel corpo e negli occhi della Danco diventa una marionetta, una di quelle statue metafisiche alla De Chirico, morbosamente sensibili e allo stesso tempo in-sensibili. Le partiture fisiche sono volutamente architettate, le intenzioni piuttosto scoperte, sono visibili i fili che muovono al pensiero, non c’è ombra di naturalismo, le inquadrature sono strette e schiette e il montaggio procede singhiozzante in un incalzare continuo.

Lo shakespeareano «I am not what I play, I am not what I am» viene decostruito in una ottica novecentesca: è forte infatti il rimando al pasoliniano Comizi d’Amore nel chiedere ai vecchi e ai giovani di riflettere ad alta voce sulla propria sessualità e sulla sessualità imposta dal conformismo. Gli adolescenti parlano a fatica della scuola, del sistema educativo che non riesce a comprenderli, della famiglia che va in frantumi; agli anziani, la loro voce si incrina ricordando le rare carezze dei genitori, la mortale e violenta imposizione del legame matrimoniale.

Anima in pena ascolta, ma non si inserisce mai nel coro, come se la Danco volesse sottolineare la presenza di una generazione di mezzo, una generazione che politicamente, moralmente ed eticamente porta sulle spalle il peso delle mancanze di quella precedente e provoca nella successiva una insicurezza ancora più devastante. Allora si avventa con un piccone contro i muri dell’Ara Pacis o si stende in posizione fetale ai piedi di un semaforo. Cosa manca nel processo di crescita e di sostituzione? Perché lo scarto generazionale che appare così feroce in realtà è fittizio? Perché i giovani sembrano terribilmente privi di sogni, perché appaiono più vecchi dei vecchi, perché i giovani portano negli occhi un’espressione di sfiducia nelle proprie possibilità, una totale incapacità di sognare e sperare di potere essere giovani senza dover vivere la propria età come un peso?

Il lavoro della Danco provoca lo spettatore, lo spinge alla riflessione, lo invita a rispondere: ai giovani si sta negando la possibilità di essere giovani. Ai giovani si sta insegnando viscidamente che la maturità intellettuale, culturale e fisica della loro età è limitata, che oltre quel limite non è coerente spingersi. Ai giovani si sta insegnando a non avere coscienza del futuro e del passato, si sta imponendo loro un eterno presente che li costringe a prolungare lo stato di inconsapevolezza e di (i)n-capacità. Sulla desolazione e sull’appiattimento la regista cerca di costruire una memoria, una memoria interiore e storica che possa fare da collante tra le due dimensioni. Senza memoria, del resto, non esiste futuro.

Un oggetto in particolare, il letto – sul quale Anima in pena non riesce a riposare ora vicino alle rotaie di un treno ora sul ciglio di una strada – può riportare alla mente dello spettatore l’immagine di quell’operaio che Calvino faceva muovere in una città irrequieta e angosciante, quel Marcovaldo che deve spiegare ai figlioletti la differenza tra la luna e l’insegna pubblicitaria che si illumina a intermittenza sul muro di fronte a loro .

«La notte durava venti secondi, e venti secondi il Gnac» scriveva Calvino, mentre la Danco la notte ce la fa solo immaginare: la veglia della sua sacerdotessa è corrosiva, nessuna risposta è mai all’altezza delle sue semplici domande e l’insegna luminosa viene sostituita dalla incostante geometria metropolitana.

Fuori come dentro regna lo smarrimento, N-capace è il ritratto di uno spaccato di Italia fortemente scisso tra il prendere posizione e l’adagiarsi in uno stato di comodo qualunquismo. Una Italia che cerca di proiettarsi nel futuro, ma non ha nozione del progresso. Una Italia che ha nostalgia del proprio presente, ma non ha consapevolezza del proprio passato.  N-capace è il ritratto di una condizione femminile ancora profondamente statica e faticosa da sostenere, di donne che non sanno come reagire alla violenza degli uomini, di donne che vorrebbero avere più spazio ma cedono al silenzio.

Ma Anima in pena non teme lo scandalo del contraddirsi, né quello di ritagliarsi un’ombra d’azione nel pensiero.

ARTICOLO* DI IRENE GIANESELLI

*Quest’articolo è stato pubblicato in una prima versione su Oubliette Magazine il 17 maggio 2016

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