I figli della notte di Andrea De Sica è un film che non parla di donne, né di uomini, ma parla dei giovani e di quello che rischiano di diventare, o di essere già diventati e di questa trasformazione mostruosa e infelice di cui non è solo loro la responsabilità. Più che un percorso di formazione i due protagonisti vivono un percorso verso il loro umiliante annullamento.
Figli della classe dirigente di oggi, destinati a prendere il posto dei propri genitori, preparati per sedersi dietro le scrivanie e i posti di comando dell’alta finanza che calcola ogni azione e reazione solo in virtù del migliore profitto, dell’imprenditoria più compromessa e palazzinara, Giulio ed Edoardo si ritrovano ad affrontare la violenza di un sistema educativo che li mette costantemente alla prova fino ad istigare al suicidio quelli che risultano essere gli elementi più deboli, quei giovani che secondo il sistema hanno qualcosa in meno (quando invece è proprio un qualcosa in più la sensibilità e la consapevolezza di viaggiare su una strada che non concede ritorni e fughe).

Giulio è un diciassettenne timido, disarmante, apparentemente potrebbe sembrare molto più puro e innocente di Edoardo che è scappato molte volte di casa e ha già vissuto da solo a Berlino e si presenta in collegio rifiutando la divisa comune. Il programma formativo prevede anche pestaggi da parte degli educandi più grandi, violenza, violenza, violenza istituzionalizzata oltre che istituzionale.
Mathias (Fabrizio Rongione) è l’istitutore del gruppo di cui fanno parte i due protagonisti: è l’angelo custode portatore di morte e dispensatore di consigli conformisti che studia i ragazzini attraverso le telecamere disseminate nei corridoi e nelle camere. Evitare rapporti esclusivi, aiutarsi con cocaina e frequentare un bordello fa parte delle istruzioni per l’uso di una vita da dirigente.
Un ritratto crudo di una prassi che questo Paese (come gli altri) conosce sui giornali e poi dimentica qualche giorno dopo l’uscita della notizia: non fa scandalo la prassi se è strutturale, fa più effetto manipolare l’intimità individuale.
Il vero scandalo, sembra avvertire invece lucidamente il regista, capace di evocare con estrema pulizia narrativa i fantasmi che tormentano almeno tre generazioni moderne, il vero scandalo è il sistema culturale che spinge ad imparare a concentrarsi su se stessi in preda ad un narcisismo violento, incontrollabile e ad un egoismo estremamente arrivista. Il singolo vale più del collettivo oggi, questo lo sappiamo, ma fingiamo di non sapere che il singolo deve anche violentare il collettivo fino a renderlo un’ombra, metterlo da parte non basta.

Una colonna sonora che oltre ai brani firmati dallo stesso regista traccia un arco temporale abbastanza preciso entro cui inquadrare questo modus vivendi (Ti sento dei Matia Bazar esce nell’85 mentre la musica house è piuttosto rappresentativa degli ultimi cinque anni), una fotografia che insiste molto sull’horror vacui dei personaggi giocando con le tinte all’occorrenza glaciali, le saturazioni più calde e quei cambi di luce improvvisi che rendono l’atmosfera fumosa e dal grigio precipitano nel nero più profondo e misterioso.
Edoardo (un inquieto Ludovico Succio) e Giulio (un perfettamente algido Vincenzo Crea) sono uno l’alter ego dell’altro, ma se Edoardo è un giovane ancora ribelle che preferisce riconoscersi in quelli che hanno qualche cosa in meno, Giulio tende ad identificarsi in quelli che con i soldi risolvono tutto e che possono comodamente liberarsi di ogni colpa scegliendo una verità comoda per tutti: così si comporta con il suo giovane amore, la piccola prostituta Elena (Yuliia Sobol).
Se uno è ancora selvatico, non educabile, l’altro cede subito a questo violento diventare uomini e il bordello diventa di fatto metafora perfetta degli ultimi vent’anni della mercificazione tutta italiana del corpo femminile e metafora anche dell’avvento mondiale della pornografia a buon mercato testimone di una assoluta e disastrosa rinuncia alla dimensione dell’affettività nei rapporti umani.

Acerbi e teneri, questi ragazzi saprebbero ancora unirsi ed essere coraggiosi, sfidare il sistema che li vuole tutti uguali, spietati, banali, infelici, ma non è che un bagliore improvviso che si perde nel bianco accecante e costruito ad arte dai genitori. In tutto questo bianco accecante, la salvezza è nelle ombre, nel talento e nella consapevolezza di sapere costruire una strada nell’oscurità. Questa dicotomia è una metafora limpida del nostro mondo, dove tutto è a portata di mano (o di click), dove tutto, anche la verità più scomoda è talmente evidente da cadere nell’oblio.
Quello di Andrea De Sica è un esordio raffinato, non citazionista, ma consapevole nell’inquadrare e far muovere geometricamente i propri personaggi. Il ritmo è incalzante fin dal principio, mai didascalico. È davvero piacevole pensare per asimmetria a Sciuscià, di Vittorio De Sica, ai suoi Pasquale e Giuseppe, a quel cavallo bianco e alla interdipendenza dei due fanciulli figli della strada tutta diversa da quella di Giulio ed Edoardo figli di una notte interiore che coincide con il sonno pieno di incubi di questa società, figli sempre senza genitori che raccontano una gioventù altrettanto disperata ma forse più malata e addirittura più nichilista perché meno capace di avere memoria e consapevolezza di sé nel tempo e nella spazio comune oltre che intimo.
I figli della notte è stato l’unico film italiano in concorso al Torino Film Festival 2016, in concorso anche al Bari International Film Festival 2017, in uscita il 31 maggio 2017.
ARTICOLO DI IRENE GIANESELLI*
*Quest’articolo è stato pubblicato in una prima versione su Globalist.it il 30 maggio 2017