A lezione da Guido Bulla: Quando traducevamo le canzoni

Guido Bulla è un Maestro: per dirla in modo chiaro, come sarebbe piaciuto a lui, era un appassionato e così appassionava i suoi studenti. Docente di Lingua e letteratura inglese del dipartimento di Anglistica dell’Università La Sapienza di Roma, è stato allievo di Agostino Lombardo. Un ricercatore militante: tra i numerosi progetti ricordiamo quello del Meridiano Mondadori dedicato alle opere di George Orwell (2000) da lui curato e in parte tradotto. Sue le traduzioni, per Newton Compton, di Antonio e CleopatraLa bisbetica domataMacbethOtelloRe LearLa tempesta di Shakespeare. Nel 2005 la sua sceneggiatura di Un posto all’ombra ha vinto il premio Massimo Troisi nella sezione Miglior scrittura comica. Sua anche la sceneggiatura de La macchinazione (2016), diretto da David Grieco. Il suo romanzo A rincorrere il vento. Memorie di un fuorisede (2016) è stato pubblicato postumo da Lithos. Il modo migliore per ricordare Guido Bulla il 25 ottobre 2022, sette anni dopo la sua morte, è tornare alle sue lezioni, ne siamo certi. Così pubblichiamo l’estratto, adattato alla lettura di un giornale online, dei suoi appunti. Ringraziamo per questo privilegio la moglie Fulvia De Persis.

Nota della curatrice

Sono solo canzonette? Parola da recitare/parola da cantare/parola da tradurre? ovvero: quando traducevamo le canzoni

Come prima cosa vorrei dire due parole sul titolo che Riccardo Duranti escogitò in occasione di una conferenza analoga a questa tenuta ai perfezionandi di un corso affine al vostro e risalente ormai a diversi anni fa. La prima parte del titolo ripropone un’espressione diven­tata famosa verso la metà degli anni Settanta. Tormentato da un esegeta giovane ed entusiasta che tutto voleva sapere sulle sue esternazioni musicali, Enzo Jannacci ridimensionò gelidamente l’importanza della situazione commentando: “trattasi di canzonette”. Vale allora la pena di occuparsene? Vale la pena – per ciò che è di più stretta pertinenza di questo seminario, e passo alla seconda parte del titolo – di tradurle? Qualche anno fa, su L’Espresso, il cattivissimo critico letterario Roberto Cotroneo (Mamurio Lancillotto) raccontava di aver ricevuto da Francesco De Gregori una copia del suo di­sco allora più recente (Canzoni d’amore) accompagnata dall’invito a leggerne i testi. Cotroneo commentava:

mi sono chiesto se si poteva fare. se dovevo trattare queste canzoni come fossero poesie. se invece c’erano altre strade possibili, altre letture. se un critico letterario può recen­sire un librettino contenuto in un disco…   si può fare, e si deve: sempre più spesso. e i testi del disco di De Gregori possono entrare tranquillamente nello scaffale di questi anni, assieme ai libri di quei pochi che ancora si interrogano su qualche cosa. (L’Espresso, 1 nov. 1992, XXXVIII, n.44, p.217).

Poesia da leggere – “poesia” “da cantare”

Non senza aver prima richiamato la vostra attenzione sulla ipocrita finezza con cui Cotroneo risponde solo indiret­tamente alla domanda che lui stesso si pone (se cioè tali te­sti vadano trattati come poesia) io passo invece a cercare di spiegare perché, a mio parere, è difficile affrontare i te­sti delle canzoni come se fossero testi poetici. Preciso: come se si trattasse di poesia scritta, destinata, ormai da tempo, a imporsi all’attenzione tramite, innanzitutto, la lettura visiva, tramite l’occhio.

Apro una parentesi: credo che i poeti cosiddetti concreti (come Edwin Morgan, Ian Hamilton Finlay), quelli cioè che sfruttano al massimo l’aspetto visivo della pagina stampata, l’assetto materiale, concreto, appunto, dei loro testi, o a maggior ragione dei loro oggetti poetici, in­tendano proprio sottolineare questa pre­minenza, relativamente recente, acquisita dallo sguardo.

Sguardo a parte, è vero che spesso, per coglierne meglio il funzionamento ritmico e sonoro, capita che proviamo a leggere una poesia a voce bassa. Capita anche che la leggiamo a voce alta, ma questo preferibilmente avviene nel chiuso della nostra stanza, lontano da orecchie di parenti che po­trebbero dubitare seriamente della nostra integrità mentale: cosa che non avverrebbe se ci sentissero cantare una canzone.

Poesia

Parto da un brano tratto dall’introduzione di un testo che molti di voi probabilmente hanno dovuto consultare. John Stallworthy, in un saggio che trovate alla fine della Norton Anthology of Poetry, ricorda semplicemente che:

a differenza di ciò che accade nella lettura di un giornale, la migliore lettura di una poesia – quella, intendo dire, più soddisfacente – comporta un impegno simultaneo dell’occhio e dell’orecchio: con l’occhio attento non solo al significato delle parole, ma anche al loro raggruppamento e alla loro spaziatura nella pagina; e con l’orecchio sintonizzato sul raggruppamento e la spaziatura dei suoni. (p.1403)

Nella poesia moderna, però, è certamente cambiato qualcosa a vantaggio, diciamo così, dell’occhio. Soprattutto si è involata, in più sensi, la musica. Scrive Bruce Pattison (“Musica e poesia nell’Inghilterra elisabettiana”, in Il rinascimento, a cura di Claudia Corti, Bologna, Il Mulino, 1994,  pp. 406-7):

la poesia primitiva mostra sempre tale identità con la musica. i romanzi cavallereschi medievali erano cantati da menestrelli […] la lirica invece continuò ad essere cantata piuttosto che letta fino al diciassettesimo secolo. per gli elisabettiani infatti, i poeti erano “i più abili musicisti del mondo”. il poeta, secondo Sidney, “viene a te con parole sistemate in deliziosa armonia, o accompagnate o predisposte per l’arte incantatrice della musica”. La maggior parte dei poeti elisabettiani conosceva benissimo la musica, tanto che alcuni musicarono i propri versi – Campion è l’esempio più noto -, mentre altri scrissero poesie per melodie esistenti. È pertanto impossibile studiare la musica e la poesia del periodo separatamente. le professioni di poeta e di musicista mantennero infatti tracce dell’associazione primitiva delle due arti fino alla metà del sedicesimo secolo. prima che la lettura diventasse comune era stato il menestrello colui che aveva contribuito a diffondere la letteratura.

Questa associazione fra le due arti non è oggi che un ricordo. Grosso modo con l’avvento di quel fenomeno internazionale che è il modernismo, il poeta tende a liberarsi da una serie di costrizioni che non sembrano rispondere più agli sviluppi del mondo moderno, da un armamentario pressoché obbligato che contemplava non solo la cosiddetta poetic diction (e cioè l’uso di un linguaggio ufficialmente poetico, sterilizzato, da laboratorio) ma anche da forme metriche canonizzate e rigorose e da vere e proprie istituzioni quali la rima o monumenti pro­sodici imbalsamati – parlo dell’aspetto formale – come, ad esempio, il sonetto.

Ecco dunque cosa succede in poe­sia: si cercano nuovi ritmi fuori dalle strutture ripetitive, fuori dalle musicalità regolari: per ricorrere a un parallelo con la musica, non si fanno sentire più i quattro quarti ma si fa sentire il sincopato. Ed ecco un buon pretesto per pas­sare al secondo dei termini del nostro discorso: la canzone.

Canzone

La canzone, anch’essa genere antico, tende invece a conser­vare – grazie anche alla presenza dell’elemento, diciamo, matematico della musica, la regolarità della struttura metrica, la recursività delle suddivisioni interne, l’uso frequentissimo della rima. come accade in genere alle forme paraletterarie o subcultu­rali, la canzone tende a essere molto cauta nelle innovazioni, conservatrice piuttosto che sperimentale; perpetua forme e stilemi: è, in breve, rassicurante assai più che innovativa.

a) vantaggi

Questa situazione comporta sia vantaggi sia handicap. Soprat­tutto handicap se ci si pone in un’ottica accademica, in cui generalmente predomina l’attenzione al canone della lettera­tura alta. Uno degli svantaggi cui è sottoposto il testo di una canzone è poi proprio lo schema metrico-melodico che lo ingabbia, costringendolo a riempitivi eufonici ormai negativamente mitici come i vari sha-la-la o gli yeah yeah che fa­cevano scrivere alla stampa, nei tempi ormai geologicamente lontani della mia giovinezza, che i Beatles erano i rappresentanti della musica ye’ ye’.

Per contro, la letteratura fa spesso ricorso, per i propri scopi, alla canzone (lo fa Eliot in The waste land, in Sweeney agonistes e altrove; lo fa Joyce che addirittura costruisce quel monumento alla lingua che è Finnegans wake su una can­zone tradizionale; lo fanno Graham Greene, che nei suoi ro­manzi ripropone spesso canzoni di Cole Porter, e George Orwell che in 1984 trasforma vecchie Nursery Rhymes in una specie di canto delle parche; lo fanno i postmoderni; il teatro contem­poraneo, come sapete, ricorre spesso al music hall: si pensi a Brecht, a Osborne, a Stoppard). La parola cantata, naturalmente, sfrutta al massimo la sostanza fonica del linguaggio, la sua componente ritmica, musicale, ma anche semplicemente sonora. Non solo, ma là dove l’intento ironico dello scrittore, del poeta, deve trapelare solo e unicamente da ciò che viene detto e dal tono che viene usato, l’autocontraddizione, una sorta di ossimoro situazionale, è più facile da co­struirsi all’interno di un testo cantato: per esempio, basta presentare un testo dai contenuti orribili in concomitanza con una musica infantile o dolce, o semplice. basta, al limite, cambiare il tono di voce, qualunque sia il contenuto del testo.

 b) svantaggi

Inutile dire che oltre al fascino, il magico nodo che lega la parola alla musica comporta anche scompensi non lievi. Capita che canzoni complessivamente gradevoli rivelino, alla prova della semplice lettura del testo, una totale incomprensibilità (un esempio: Santa Lucia di De Gregori) o addirittura una deprimente idio­zia. Di questo aspetto si occupa Aldous Huxley in Brave new world revisited, un saggio che risale al 1958. Huxley parla specificamente di quelli che oggi chiamiamo jingles pubblicitari:

su moltissime persone la musica esercita un’attrazione intrinseca. Non solo: un motivo tende a inserirsi nella mente dell’ascoltatore, a restare nel ricordo per tutta una vita. Queste mie ultime parole, per esempio, costituiscono un’affermazione di scarso interesse, un semplice giudizio di valore. Ma provate ad adattare queste stesse parole ad un motivo facile, che si ricordi. Diventeranno subito parole possenti. Non solo: quelle parole tenderanno a ripe­tersi automaticamente ogni volta che si oda o si ricordi il motivo. Orfeo ha fatto alleanza con Pavlov: la potenza del suono si lega al riflesso condizionato. Al propagan­dista commerciale, e così pure ai suoi colleghi del campo politico e religioso, la musica offre un ulteriore vantaggio. Un’assurdità che una creatura ragionevole si vergognerebbe di scrivere, di dire, persino d’ascoltare, si può invece ascoltare cantata, o cantare con piacere, addi­rittura con una certa convinzione intellettuale. (ital., p. 277)

Acquisito il più che legittimo parere di Huxley, (che probabilmente, come era suo diritto, detestava la musica leggera) riassumiamo adesso alcuni dei punti che ho toccato fin qui. Rispetto a testi concepiti come poesie, i testi da canzone:

1) non sono tenuti a esprimere alti valori formali né a ri­voluzionare troppo il genere cui appartengono;

2) godono e soffrono per un rapporto obbligato con strutture musicali fisse, o almeno largamente stabilizzate;

3) sfruttano la musicalità del linguaggio disponendo di una dimensione ulteriore, che scocca dall’impatto fra parola e musica.

A proposito di quest’ultimo punto ho un altro aneddoto, che nasce dall’esperienza di un bravo mestierante come Bruce Springsteen. A una nostra studentessa che intendeva scrivere (e che poi effettivamente scrisse) una tesi di laurea sui suoi testi, Springsteen (tramite il suo biografo Dave Marsh) rispose pochi anni fa che riteneva impossibile che si sottoponessero ad analisi separata dei testi che fanno parte di una canzone. Canzone che, aggiungeva, appartiene alle Performing Arts, cioè alle Arti dello Spettacolo. I suoi testi, insomma, non andrebbero letti ma eseguiti.

Basta adesso con le premesse più o meno organizzate in teoria. è tempo di arrivare finalmente all’aspetto che ri­guarda più da vicino questo corso, quello della traduzione.

Ci fermiamo qui, lasciamo gli appunti aperti sull’invito di Guido Bulla a entrare nella fase più operativa della ricerca. Un invito che cogliamo anche per le nostre vite.

Nota della curatrice

ARTICOLO DI GUIDO BULLA

a cura di Irene Gianeselli

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