Conversazioni al presente: un incontro con Beppe Rosso e il suo Teatro

Conversazioni al presente sono incontri pensati per avvicinare lettori e lavoratori dello spettacolo, per vivere insieme il qui e ora oltre le sofferenze e le costrizioni, le mancanze e le privazioni. Riflettere sul tempo presente apre le porte al futuro, è un’occasione di studio.

Beppe Rosso è regista, attore e autore teatrale. Nel 1979 fonda la Compagnia Granbadò Produzioni Teatrale, nel 1980 entra nel Laboratorio Teatro Settimo di Gabriele Vacis; nel 1998 fonda la Compagnia ACTI Teatri Indipendenti. Come drammaturgo scrive e allestisce con il Teatro Stabile di Torino testi che affrontano il disagio del vivere contemporaneo: “Camminanti”, “Trilogia dell’invisibilità”, “Fantasmi d’acciaio”; “Keely and Du”, “La commedia dell’amore Jack e Jill”, “Flags”, “Nord Ovest” e “La Bottega del Caffè-Una storia di intrighi e veleni”. Nel 2013 mette in scena “Solitudine” dal teatro partigiano di Beppe Fenoglio e dirige il progetto “Taste Circus”, nato dalla contaminazione tra teatro e circo. Nel 2014 mette in scena “Attenzione alle vecchie signore corrose dalla solitudine” dai testi di Matej Visniec e cura la regia e la drammaturgia di “Autour de Madame Butterfly”. Nel 2015-2016 dedica la sua ricerca drammaturgica al mondo del lavoro con gli spettacoli “Ti amo lavoro” e “Piccola Società Disoccupata” dai testi del drammaturgo francese Remi De Vos. Nel 2017 debutta al Teatro Stabile di Torino con “Troppi (ormai) su questa vecchia chiatta” dai testi di Matei Visniec, dedicato al tema dei migranti. Nel 2017 co-dirige l’evento “La Foresta che cresce” esito finale del progetto vincitore del bando MigrArti del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali; nel 2018 è regista e drammaturgo del radiodramma “Parliamo la stessa lingua”, progetto vincitore del bando MigrArti. Per il Festival di nuova drammaturgia “Il Mondo è Ben Fatto” presenta in forma di mise en espace il testo di Csaba Szekely “Nu regret nimic”, tradotto con il titolo “Non mi pento di niente” che nel 2019 diventa produzione teatrale di cui è regista e in scena con Annamaria Troisi e Lorenzo Bartoli. Dal 2018 è co-direttore del progetto “Fertili Terreni Teatro” spazi uniti per il contemporaneo e del “Festival delle Migrazioni”. Nel 2008 è autore (con Filippo Taricco) del libro “La Città Fragile”(Bollati Boringhieri). È presente come attore in numerosi progetti cinematografici e televisivi. Ha lavorato con Davide Ferrario, Armando Ceste, Josè Maria Sanchez, Maurizio Zaccaro, Luca Barbareschi, Ricky Tognazzi, Franco Lizzani, Lodovico Gasparini, Riccardo Donna, Louis Nero, Antonio Albanese, Alberto Ferrari.

Come hai cominciato a fare Teatro e perché?

Era il lontano 1974, collaboravo con Carlin Petrini, ora grande patron di Slowfood, a “Radio Brà Onde Rosse” una delle prime radio libere, allora ancora non legalizzate e più volte sequestrata dalle forze dell’ordine. Arrivò Dario Fo a sostenerci, lavorò con noi alla radio per parecchi giorni e contemporaneamente aiutò registicamente alcuni di noi ad allestire una sua farsa. Lì scatto la mia passione per il teatro che ancora oggi non è finita. La mia formazione fu essenzialmente sul campo, lavorando in quel coacervo di pulsioni e stimoli che furono la fine degli anni Settanta, dove nacquero, il teatro di sperimentazione, le cooperative, il terzo teatro, l’animazione… che cambiarono profondamente il teatro italiano. Un’epoca straordinaria che ho avuto la fortuna di attraversare partecipandovi. Dopo questa esperienza fui chiamato a lavorare al progetto di animazione teatrale che il Comune di Torino avvio nel 1975, si lavorava a rompere e destrutturare le barriere fisiche e partecipative del teatro. Contemporaneamente si seguivano corsi di formazione con i grandi attori europei come quelli di Peter Brook e Jerzy Grotowski, allora considerati due dei grandi maestri di riferimento, ed altri. Mi appassionai così tanto al teatro fisico che passai un anno a Parigi frequentando la Scuola Internazionale di Teatro di Jacques Lecoq. Poi iniziarono gli anni Ottanta e fu teatro di giro con la Compagnia Granbadò. Un grande lavoro impostato sulle tracce del teatro dell’assurdo, si facevano più di 130 spettacoli ogni anno, tra teatro per ragazzi e teatro serale in Italia e in Europa.

Com’è nato Acti?

Prima ci fu l’esperienza fondamentale con il Laboratorio Teatro Settimo, allora, tra gli anni Ottanta e Novanta, Compagnia di punta e di riferimento per il teatro italiano. Lo cito perché fu un altro elemento fondante del mio percorso e visione del teatro dove sperimentazione, profondità dei temi e intrattenimento si possono fondere insieme in nome della “comunicazione” e dove ogni attore è da considerarsi drammaturgo di se stesso. Esaurita quell’esperienza nel 1998 fondai ACTI, acronimo di Associazione Culturale Teatri Indipendenti. Significativa è la parola “Indipendenti”, plurale, perché la pratica fu quella di raccogliere e lavorare con artisti con visioni anche differenti per costruire progetti dentro e al di fuori dai luoghi convenzionali, appoggiandoci per la realizzazione a strutture riconosciute e sovvenzionate pubblicamente. L’idea nacque dall’esigenza di creare una Compagnia leggera e progettuale che si occupava essenzialmente della parte artistica e indipendente, appunto, dalla parte più burocratica e quantitativa che imponevano le sovvenzioni strutturali del Ministero o della Regione. Per qualche anno questa formula funzionò e realizzammo parecchi progetti come “Il Gioco di Romeo e Giulietta nel mercato di Porta Palazzo”, un grande spettacolo evento che coinvolgeva 45 attori tra professionisti e non di diversa provenienza etnica supportato dal Centro del Teatro dell’Angolo e dal Teatro Stabile; o “1945 – Storia di una Liberazione” realizzato nella piazza del Municipio di Torino con 13 musicisti Jazz diretti da Battista Lena, attori e proiezioni giganti sui palazzi della piazza e supportato dal Teatro Stabile e Comune di Torino. Poi anche questa fase si esaurì per varie ragioni e cominciammo a rientrare nei teatri e nei ranghi delle Compagnie sovvenzionate da Ministero ed Enti Locali.


Che città è Torino per il Teatro?

Domanda non facile. Comincerei con il dire che per tutto il ‘900 e stata una città laboratorio anche dal punto di vista culturale, dove le cose nascevano per svilupparsi poi altrove, è stato così per il cinema, la moda, la danza contemporanea, l’Arte Povera etc.. gli esempi sono tantissimi. Una grande forza e nel contempo una dannazione ma è questa la radice profonda della città che credo abbia il suo peccato originale nella costruzione del Regno d’Italia come capitale poi trasferita. Anche per il teatro fu così. Poi arrivarono gli anni 2000 con l’idea di trasformazione da città a traino industriale a città della cultura, un passaggio cruciale con sullo sfondo le olimpiadi invernali del 2006, un passaggio che trasformò la città e il teatro seguì questo processo: nel 2002 si varò il progetto Sistema Teatro Torino, a cui io contribuii in modo concreto e fattivo. Il Teatro Stabile e gli altri teatri si aprivano alle Compagnie con progetti di coproduzione, ospitalità e scambio culturale. Un progetto innovativo, invidiato da più parti, che generò un motore di grande fermento e di equilibrio territoriale tra forze grandi, medie e piccole. Poi dal 2008 circa, questo motore rallentò la sua corsa fino ad ingripparsi, per mancanza di direzione politica, per stanchezza, e altri motivi che non sto qui ad analizzare; ognuno rientrò nei propri ambiti ed adesso la città sta cercando per il futuro una direzione ora smarrita.


Fertili Terreni Teatro è un’altra realtà della quale fai parte.

Nasce come nuova proposta in risposta allo smarrimento di direzione e sviluppo calato su questa città. Nel 2017 quattro Compagnie ACTI – Teatri Indipendenti, Mulino di Amleto, Tedacà e Cubo Teatro che gestiscono tre sale teatrali sul territorio di Torino San Pietro In Vincoli, Bell’Arte e Cubo decidono di mettersi in rete, lavorare insieme per creare una stagione teatrale diffusa sulla città. Tre teatri, che abbracciano zone differenti e non centrali del territorio, si uniscono per offrire maggiori stimoli e opportunità al pubblico, con proposte fondate essenzialmente sui temi e linguaggi della contemporaneità; e generano  un unico cartellone annuale di circa 110 serate di spettacolo ospitando artisti di livello nazionale che nei tre spazi – data la dimensione (ognuno ospita 100 spettatori) – trovano una propria dimensione ideale di rappresentazione e un forte e diretto contatto con lo spettatore. E’ un’esperienza innovativa che, anche grazie alla sempre maggiore vicinanza e fiducia tra le quattro Compagnie, ha trovato sviluppo negli anni e si è trasformata in incubatore di idee e progetti, come il Festival Europeo di Nuova Drammaturgia, realizzato nel 2018 e di cui stiamo preparando una nuova edizione o il lavoro di scouting su artisti e Compagnie locali per i quali siamo diventati punto di riferimento. In questo senso un progetto che potrebbe garantire a Torino la coltivazione di un humus culturale significativo, con la prospettiva di divenire terreno sempre più fertile per una nuova produzione culturale recuperando l’idea di città laboratorio di cui ho parlato prima.


Che cos’è per te la regia?

La regia è una delle “voci” che costruiscono un’opera. Certo il regista decide la direzione e la visione d’insieme ma, a parer mio, deve stare fortemente in ascolto delle altre “voci”: quella dell’autore, dello scenografo e soprattutto degli attori. Non credo al regista “deus ex machina” che ha già precisamente tutto in testa prima di cominciare il percorso di prova, è una costruzione o meglio invenzione che avviene molto dal “qui e ora” delle prove. E ogni attore può essere, in qualche modo, drammaturgo di sé stesso, che ascolta le indicazioni registiche e le fa proprie anche trasformandole, inventando ma non agisce mai in pura esecuzione, il regista lo conduce per trovare quello che lui ha dentro di sé in rapporto al personaggio, un qualcosa che è unico, è suo e non di un altro attore. Poi il regista compone l’insieme. Per questo motivo io tendo a lavorare con attori che già conosco o che in qualche modo condividono questa visione.


Incontriamo i tuoi spettacoli, partiamo da Non mi pento di niente di Csaba Székely: com’è nato questo progetto?

Csaba Szekely l’ho conosciuto di persona nel Festival di Drammaturgia Europea ideato da Fertili Terreni Teatro. Il testo fu scelto con altri quattro di diversa nazionalità. A me toccò la “mise en espace” di Non mi Pento di Niente e fu un’esperienza profonda. In realtà conoscevo già Szekely di fama, avendo frequentato più volte la Romania; la sua conoscenza diretta (persona veramente squisita) e la lettura dei suoi testi che vertono sempre su tematiche altamente drammatiche con una leggerezza di scrittura fenomenale sempre venata di ironia (il che mi corrisponde), mi ha convinto che anche l’Italia avrebbe dovuto conoscere questo autore allestito in più parti d’Europa, così decisi di mettere in scena il testo in modo compiuto, considerando anche che il testo affronta un tema complesso dell’Europa dell’Est, il passaggio dal regime alla democrazia, e apre a noi uno spiraglio di comprensione su quel mondo così vicino ma anche così mentalmente lontano. In realtà il tema “cambiare tutto affinché nulla cambi” riguarda da vicino anche noi e il nostro paese. La cosa più emozionante è stata vedere tra il pubblico parecchi spettatori della comunità rumena di Torino che dopo lo spettacolo sono venuti a salutarmi e ringraziarmi con le lacrime agli occhi.

Tra le tue regie c’è Il Rifugio: perché hai scelto di mettere in scena questo testo di Tim Whitnall?

Il Rifugio ha un altro percorso: anni fa vidi il film che M. Losey presentò al Torino Film Fest con il titolo “The Hyde”. Restò fortemente impresso nella mia memoria e anni dopo scoprii che si trattava di un testo teatrale trasposto in cinema. Feci una ricerca e riuscii a risalire al testo scoprendo che era stato premiato al Festival di Edinburgo, riuscii a contattare Tim Whitnall e ne chiesi i diritti per l’Italia. Quindi da anni mi girava per la testa e finalmente riuscii a mettere in scena in forma di studio questo testo che mette a confronto e in scontro due uomini, due diversi, finiti in un capanno per Birdwatching. Una situazione assurda piena di colpi di scena e ribaltamenti spiazzanti, con una scrittura che richiama Pinter e Beckett. Un bel progetto sul tema della diversità e del non dare mai nulla per scontato, con in scena Michele Sinisi, Lorenzo Bartoli e intrusioni del film di Losey. Doveva debuttare in modo definitivo con il Teatro Nazionale di Torino nel maggio scorso e purtroppo è stato bloccato dal lockdown.


Piccola Società Disoccupata suona già dal titolo come una provocazione ai nostri tempi, il testo è di Rémi de Vos. Come hai lavorato a questo spettacolo?

Sì, è una provocazione e pure lo spettacolo segue questa linea; volevo fare uno spettacolo sul mondo del lavoro, che era ed è il dramma di fondo del mondo occidentale, soprattutto per le nuove generazioni, grazie a Luca Scarlini incontrai i testi di Remy De Vos, autore conosciutissimo ed apprezzato in Francia ma praticamente sconosciuto in Italia. Fu un amore a prima vista, la sua scrittura graffiante ed ironica mi incuriosi subito. Tra tutti i suoi testi ne scelsi due e domandai a Remy il permesso di farne un assemblamento drammaturgico, dato che non volevo fare uno spettacolo di situazione per la complessità e le varianti del tema, l’autore acconsentì e ne è venuto fuori un allestimento sul conflitto generazionale in rapporto al lavoro, provocatorio, graffiante ed ironico che l’autore ha apprezzato molto.

Con la tua Compagnia in questa stagione avete attraversato una drammaturgia europea, da est a ovest. Che tipo di drammaturgia è a tuo avviso e come valuti quella italiana confrontandole?

Credo fermamente che si debba guardare all’Europa in tutti i sensi ma soprattutto culturalmente. O ci sentiamo europei oppure no. È la nostra salvezza, è un’apertura di orizzonte. Modi diversi di intendere la scena e la drammaturgia che si incrociano. Io sono molto curioso, la curiosità è il mio motore creativo principale e segue delle piste che soddisfano questo mio bisogno. Con questo non voglio dire assolutamente che gli autori italiani non siano validi, certo son pochi in rapporto agli altri stati europei e, a mio avviso, purtroppo in conseguenza del fatto che in Italia non si dà sufficiente spazio e valore alla drammaturgia contemporanea, relegata il più delle volte ai margini delle grandi scene.

Dei Liquori fatti in Casa è una tua scrittura. Che tipo di drammaturgia è la tua e come avete lavorato a questo spettacolo? 

Per la verità lo spettacolo è stato scritto da me con Gabriele Vacis e Remo Rostagno e appartiene al tempo (anni Novanta) in cui lavoravo con il Laboratorio Teatro Settimo, tempo in cui nasceva il teatro di narrazione (nel Teatro Settimo si lavorava insieme a Marco Paolini, Eugenio Allegri, Laura Curino) e dove si aveva a disposizione più tempo di creazione. In questo caso il lavoro di allestimento durò sei mesi e il risultato fu uno spettacolo che continuo a fare ancora oggi per la sua efficacia. Fu per me un’importante esperienza di scrittura scenica: si procedeva per improvvisazioni e sperimentazione di nuovi testi trovati o scritti la notte e provati il giorno dopo. Poi la mia concezione di drammaturgia, come si può immaginare, è mutata nel tempo, passata e distillata attraverso molte esperienze. Ma direi che si è definita o consolidata nei primi dieci anni di questo secolo attraverso molte esperienze, come, ad esempio, l’allestimento e la scrittura della “Trilogia dell’Invisibilità” realizzata con il Teatro Stabile di Torino, tre spettacoli che son diventati poi un libro per la Bollati Boringhieri dal titolo “La Città Fragile”. Ma sinteticamente credo di poter dire che per me il teatro deve affrontare temi scottanti e travagliati dell’uomo contemporaneo con la “leggerezza” che Calvino ci ha insegnato nelle Lezioni Americane. Credo che dopo un secolo, il ‘900, dove giustamente si è proceduto, in tutti gli ambiti culturali, alla scomposizione dei linguaggi, ora si dovrebbe tornare alla ricomposizione, senza perdere memoria di ciò che è stato il ‘900, in nome della “comunicazione”.

Arriviamo al recente Radio International: come si è svolta la costruzione del progetto?

L’allestimento è nato all’interno di un più ampio progetto transfrontaliero: migrACTION, cofinanziato dall’Unione Europea nel Programma Interreg Italia-Francia ALCOTRA. Sono partito dall’idea di costruire uno testo ambientato in uno studio radiofonico, per entrare dentro alle dinamiche di costruzione delle notizie e dei rapporti a volte contraddittori e non sempre facili tra i cronisti. In più, volendo anche parlare del dramma del passaggio tra Italia e Francia degli attuali migranti, uno studio radiofonico poteva essere un buon punto di vista dove scartare ogni possibile retorica legata all’argomento. Una piccola radio, un ambiente dove si incrociano il mondo esterno attraverso le notizie e il mondo interno di rapporti conflittuali tra i cronisti, un punto di osservazione della nostra contemporaneità, che permette anche di mettere in azione la forza, l’influenza e le contraddizioni del mondo dell’informazione: data quest’idea ho chiesto ad Hamid Ziarati, autore letterario di origine Iraniana, già pubblicato più volte da Einaudi, di partecipare al progetto perché poteva portare un punto di vista più concreto sul dramma dei migranti. Abbiamo cominciato a scrivere. In realtà io avevo già elaborato una serie di mappe mentali sui possibili temi e conflitti legati al tema e all’idea e abbiamo redatto 15 brevi testi che dovevano essere la base da cui partire con gli attori, pensando di creare il testo definitivo attraverso una drammaturgia scenica. Poi è arrivato il lockdown che ha fermato le prove in teatro appena iniziate.

Ecco, la pandemia. Come avete lavorato in questo anno?

Lo spettacolo avrebbe dovuto debuttare a fine Aprile 2020, nella prima settimana di marzo cominciammo le prove con gli attori, i tecnici e lo scenografo. Incappati nel lockdown, ci siamo chiesti che cosa si poteva fare. Dopo un primo momento di smarrimento, abbiamo deciso di continuare le prove attraverso la piattaforma zoom. Fortunatamente l’allestimento ambientato in uno studio radiofonico non era formalmente così distante dalla piattaforma scelta. Poco alla volta abbiamo individuato un metodo, sempre più raffinato, che ha permesso agli attori di improvvisare e man mano di andare a costruire le situazioni. Insomma siamo riusciti a costruire un terreno di gioco comune. Abbiamo individuato alcuni format e modalità che permettessero di improvvisare, ripetere ed arricchire il testo e le azioni. La piattaforma Zoom ha dei grossi limiti ma anche caratteristiche interessanti: presuppone da parte degli attori un grande ascolto reciproco e non consente troppe sfumature, la parola deve sempre essere in azione. Lavorammo ogni giorno (escluse le domeniche), ogni giorno tre ore, il resto del tempo a scrivere e far memoria; per tre mesi da marzo a quasi fine giugno. E abbiamo riscoperto il grande valore del tempo. Il dramma del lockdown a noi ha regalato la possibilità di lavorare insieme per tre mesi, cosa impensabile prima. Come dire “non tutti i mali vengono per nuocere”. In quei tre mesi di prove ci siamo appassionati e divertiti, ognuno nel proprio campo di azione e abbiamo prodotto così tanto materiale interessante che si è deciso di fare una produzione seriale. Anche con la scommessa di sperimentare quanto il format della serialità potesse essere adottato e seguito dallo spettatore in teatro. Alla fine del percorso abbiamo aperto la nostra piattaforma al pubblico in una maratona di 2 giorni e ci siamo resi conto che il progetto era interessante. Durante i mesi estivi io e Hamid Ziarati abbiamo raffinato e riscritto parti del testo e da fine agosto abbiamo iniziato le prove in teatro per debuttare il primo di ottobre. Il risultato uno spettacolo in 5 puntate: ogni puntata è una storia a sé, con una sua autonomia, ma tutte insieme raccontano la trasformazione di un’emittente radiofonica e il dramma di un Paese nel breve arco temporale di una settimana. Una commedia dai risvolti tragici che si sviluppa in otto ore di spettacolo diviso in 5 puntate.

E la risposta del pubblico a Radio International quale è stata?

Il progetto è stato presentato per tutto il mese di ottobre 2020, ogni settimana una puntata, replicata per 4 giorni, gli altri giorni ci son serviti per riallestire la puntata successiva. Il pubblico ci ha seguiti fin dall’inizio, anzi la più parte è tornata portando con sé amici, tanto che alla quarta puntata abbiam dovuto aggiungere una replica e lasciar fuori parecchi spettatori. Purtroppo l’ultima puntata è incappata nel secondo lockdown e non siamo riusciti a presentarla, però al Circuito del Piemonte il progetto è piaciuto molto e nel mese di novembre abbiamo ripreso tutte le puntate con una troupe televisiva e sono state messe in onda sul sito di Piemonte live. Chi volesse vederle può farlo, ancora sono a disposizione sul sito, divise però in 10 puntate. E così un progetto nato in streaming, poi passato al teatro, ritorna in streaming.

Teatri che chiudono e tentativi di trasformare il montaggio di uno spettacolo in reality, ci sono state varie esperienze in Italia in questi ultimi mesi. Secondo te che cosa accadrà alle nostre città se non potremo tornare a incontrarci fisicamente davanti ad un palcoscenico?

Io credo che quest’anno di pandemia e chiusure in qualche modo cambierà il profilo del mondo, non so se in peggio o in meglio, ma non si può far finta che non sia successo nulla e che tutto tornerà come prima. Specie nell’Occidente si è scoperta una vulnerabilità che mette in evidenza problemi radicali della nostra società. Sta emergendo il valore della sanità pubblica, dell’istruzione, della ricerca e della cultura. E di conseguenza anche il teatro si dovrà fare carico delle proprie responsabilità e necessità di cambiamento, dovrà diventare sempre più un centro di confronto e non solo di fruizione di spettacolo e dovrà svolgere la funzione di servizio culturale necessario e di agorà. Una trasformazione che, confido, dovrà andare di pari passo con la trasformazione dei grandi centri urbani che dovrebbero essere ripensati. Come dicono alcuni insigni architetti si dovrebbe abolire il termine “periferia” e costruire delle città policentriche, città come insieme di piccole città o borghi, ognuno con la propria dignità abitativa e servizi a disposizione: sanità, scuole e cultura. In questa visione i teatri, oggi considerati decentrati, potrebbero assumere una grande funzione: artistica, associativa, polifunzionale con altre arti e soprattutto di prossimità con un nuovo pubblico. Non dimentichiamoci che ora, o meglio fino ad un anno fa, i teatri erano frequentati da una piccolissima porzione di pubblico rispetto alla totalità della popolazione. E si dovrebbe trovare il coraggio di sperimentare nuove forme di ingaggio con lo spettatore, o meglio con il cittadino. Nel ‘900 si parlava di pubblico poi si è passati al termine spettatore, ora si dovrebbe parlare di cittadino. Il discorso è lungo e complesso e ci vorrebbe più tempo per svilupparlo. Tanto che come Fertili Terreni Teatro stiamo cercando di organizzare un incontro-convegno su questi temi per maggio prossimo. Io credo e spero ci siano i termini e tempi per costruire una rinascita, e certo alcune delle strategie sperimentate sui social in questo periodo di lockdown potrebbero essere molto utili anche per il futuro.

ARTICOLO DI IRENE GIANESELLI

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