Tanto per cambiare: il viaggio di Enrico Parsi dal jazz di Berchidda e dintorni a oltre

Un articolo su “Tanto per cambiare” (Pacini Editore, 2019) di Enrico Parsi, il primo, lo avevo scritto almeno sei mesi fa. Era solo una bozza, in redazione aspettavamo agosto 2020 per pubblicarlo: aspettavamo il ritorno del Festival Time in Jazz.

Poi è accaduto tutto e niente: come una bomba è esploso il Covid19, siamo rimasti sospesi nelle nostre bolle e abbiamo sofferto, chi più chi meno, la solitudine più profonda, anche se non ce lo siamo detto. Non molto consapevoli, in verità, di quello che ci accadeva dentro, nel posto più segreto del cuore perché più si rimaneva soli, più alcuni si trovavano comodi, più altri si incattivivano, più altri si addomesticavano, più altri ancora si dimenticavano di essere nel mondo.

Così io, ogni tanto, in quelle settimane in solitaria di studio e lavoro tornavo allo scaffale dove discretamente, come una piccola ancora tra tante parole, se ne stava questo agile libro, un centinaio di pagine, cento e una per l’esattezza. Lo rileggevo e mi dicevo che quell’articolo che avevo scritto, in fondo, non era pronto perché, in effetti, in quei giorni ci si guardava tutti i piedi: ci stavamo dimenticando delle stelle. E degli altri. Non ero pronta io, non eravamo pronti. Forse, non lo siamo ancora.

Allora, in questi giorni, ho ricominciato a scrivere quell’articolo proprio mentre con grande, profonda soddisfazione leggevo e scoprivo di quanto e di come Time in Jazz fosse ritornato a Berchidda dal 9 al 16 agosto, appuntamento irrinunciabile dal 1988, nonostante il Covid19 e la paura, nonostante tutto.

Enrico Parsi con “Tanto per cambiare” racconta non un progetto di Paolo Fresu, ma il progetto di una comunità e, soprattutto, racconta cosa significa, cosa dovrebbe significare la parola comunità. Perché, come avviene nel quartiere Corticella a Bologna nel centro commerciale gestito da una cooperativa di Consumo o come accade alla Biblioteca delle Oblate a Firenze o a pochi passi da Piazza Santa Maria Novella con Todo Modo o in Trentino al “Rifugio Il Masetto”, o ancora in Puglia con VàZapp’ sono i luoghi a costruire le comunità, ma sono anche le comunità a costruire i luoghi. E questo Parsi, da viaggiatore e psicologo di formazione sistemico relazionale, lo sa bene.

Ma cosa significa costruire, vivere e avere cura di un luogo e di una comunità?

Enrico Parsi smonta gli ultimi venti, trent’anni di società consumista ed economicista, con la forza di una lingua impeccabile e schietta, senza l’ausilio dell’odiosissimo storytelling vacuo e invasivo. Agile, con un ritmo davvero musicale, il racconto si moltiplica: affronta il viaggio di un uomo nelle città che vive per lavoro, affronta il viaggio nell’agosto di un figlio adolescente e appassionato di musica con il proprio padre, affronta il nostro viaggio di cittadini un poco distratti e troppo disillusi, spesso dediti al nichilismo comodo del “tanto il mondo non cambia, il cambiamento è utopia”. E poi, affronta anche la musica.

Parsi esalta la complessità, benedetta sia, delle nostre vite: sono vite che poco hanno a che vedere con il neo-liberismo, con gli interessi feroci dell’individualismo sfrenato, almeno ontologicamente parlando. Perché, è pure vero, siamo nati e cresciuti con l’idea che la natura umana fosse esclusivamente economica e siamo formattati con parole che ci pensano ma che spesso non capiamo, ma siamo donne e uomini.

E, in queste cento e una pagine, declinando la complessità in tutta la sua bellezza animale, Parsi non fa che dirci, senza mai dirlo davvero, che noi umani siamo e che tutto ciò che è umano ci riguarda.

Lo sanno, questo, a Berchidda e dintorni, lo fanno palpitare e se lo trasmettono con la musica, accompagnando tutto con un sorriso e un buon bicchiere di Vermentino.

Lo sapevano, questo, i sette fratelli della famiglia Cervi di Reggio Emilia che, negli Anni ’30 fecero di un terreno impossibile da coltivare una terra fertile prima di essere assassinati dai fascisti.   

Lo sapevano, questo, i padri costituenti quando scrissero l’articolo 41 della Costituzione italiana, per la quale, secondo Parsi, con un poco di coraggio e irriverenza, si potrebbero dichiarare incostituzionali  le attività economiche solo centrate sul profitto.

L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.

L’unica forma di economia ammissibile, e lo dovremmo capire in questi giorni incivili, è l’economia civile. Quella che torna ad occuparsi del governo della casa, come da etimologia: la casa comune, quella che abitiamo tutti e che, ragionando per sistemi e non per egoismo malato ed individualismo patologico, è la città, il Paese, l’Europa e il Mondo.

Il 16 agosto si è concluso il Festival Time in Jazz, quell’eccellente laboratorio per le arti, quell’intenso momento di scambio culturale e umano che fa di volontari, professionisti, pubblico, artisti e abitanti una affiatata comunità dove manualità e filosofia sono indissolubilmente unite, dove lo scambio generazionale è puro e potente. Dove la complessità è accolta e valorizzata con la semplicità di un sorriso. Dove anche il lasciare, al tempo giusto, cariche di potere e luoghi, diventa un fatto culturale, relazionale. Per potere continuare e per potere tornare.

ARTICOLO DI IRENE GIANESELLI

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