Giuseppe Bonifacino insegna Letteratura italiana moderna e contemporanea nell’Università di Bari. È studioso di temi ed autori della modernità letteraria, da Gadda a Pirandello, da Bontempelli a Pasolini, da Palazzeschi a Montale, a narratori meridionali come il salentino Michele Saponaro. Già nella redazione della rivista “Lavoro critico” per l’intero arco ventennale della sua vicenda, è dal 2004 nell’Editorial Board della rivista internazionale di studi gaddiani “The Edinburgh Journal of Gadda Studies”. Fa parte dell’Edinburgh Gadda Prize Committee. È responsabile dal 2009 della MOD (Società italiana per lo studio della Modernità letteraria) per la scuola – sez. Puglia.

Nel Pasticciaccio, il commissario Ingravallo, a proposito dell’aggressione alla sensualmente conturbata contessa Menegazzi, pensa il destino quale «sistema di forze e di probabilità che circonda ogni creatura umana, e che», appunto, «si suol chiamare destino», come della morte il giovane Gadda, nella sua visione filosofica del reale quale incessante combinazione di relazioni oppositive («polarità»), scriveva che «la vita giunge talora ad apparenze così difformi dalle consuete che noi ne facciamo nome speciale e diciamo morte». I movimenti del tempo, la vita, il destino, erano figure – parvenze – dell’ adespota «istinto» combinatorio assunto fin dagli anni Venti da Gadda quale paradigma gnoseologico e struttura della realtà da rappresentare, nel suo perenne divenire, nella partitura solo ottativamente sinfonica del progettato romanzo (l’incompiuto, e postumo, Racconto italiano del Novecento), nel segno modernista del dominio del caso. Laddove, agli esordi della sua esperienza intellettuale, nel tempo della Grande guerra, Gadda nominava il destino ancora secondo il senso comune, e perciò in quanto forma della congiunzione tra l’accidentalità della propria esistenza individuale e l’orizzonte di senso della storia, della «grande storia presente» dalla quale, dopo la tragica rotta di Caporetto, era rimasto ormai per sempre escluso («il mio triste, nebuloso, schiacciante destino»;. «nobilitare in qualche maniera quel sacco di cenci che il destino vorrebbe fare di me»).
La Grande Guerra era stata, per lui, promessa ed esperienza del Valore – ed era, per sempre, ormai il passato. Il tempo folgorato e spezzato di un universo autentico e perduto. E di una sconfitta individuale introiettata come lo stigma di un destino di negazione. Nel corrotto e sconvolto presente del primo dopoguerra, nel suo caos sociale e ideale, alla sua crisi individuale, che l’avventura bellica non aveva potuto sciogliere o redimere, Gadda sommava la crisi epistemologica che investiva anche la sua ambizione di scrittore, disperatamente rivolto ai modelli di un Ottocento accepito come inattingibile, e stretto per questo nella «costante compresenza dei tempi» della condizione modernista (Donnarumma).

Pertanto, nella sua Meditazione filosofica del ’28, elaborata dentro e versus la crisi del retaggio positivista,pensare la realtà come complesso di antinomie («polarità», appunto) simultaneamente interagenti e ovunque e in ogni istante deformantisi («Tutto attualmente è, tutto si deforma») comportava, per Gadda, una modernistica messa in mora della tradizionale funzione ordinatrice del soggetto, del suo libero dominio sull’oggetto da conoscere (e da rappresentare nella scrittura). Sensibile alla ormai intervenuta rivoluzione epistemologica primonovecentesca, il soggetto pensabile per Gadda era coinvolto integralmente nell’atto del conoscere, partecipava del proprio oggetto, modificandolo e modificandosi nel procedere euristico. Conoscere il reale – fissarne l’esperienza in una forma – voleva dire effrangerne la forma: «il flusso fenomenale si identifica in una deformazione conoscitiva, in un ‘processo’ conoscitivo. Procedere, conoscere è inserire alcunché nel reale, è, quindi, deformare il reale».
A conferma della sedimentazione lato sensu filosofica del suo pensiero letterario, il concetto di deformazione, cardine della sua gnoseologia, diventava per Gadda, nella risposta all’inchiesta solariana del ’31 sulle tendenze degli scrittori italiani di quegli anni, il canone della sua poetica: della quale, fin dall’aggettante ambiguità semantica tra teleologia e morte del titolo – Tendo al mio fine – rimarcata dalla stessa autoesegesi adibita dallo scrittore alla diffrazione bìvoca del proprio discorso, quella dichiarazione ammantata della straniante torsione stilistica del pastiche fissava la intenzione realistica. Da codificazione formulare del doppio movimento del processo euristico, infatti, il lemma ora veniva a focalizzarne l’attuazione nel fieri stesso della scrittura, nel conflitto – riflesso in sede letteraria di quello tra l’atto euristico e il suo oggetto – dell’autore con l’esperienza offertagli dal caso, ovvero dal destino di cui era modernisticamente espropriato: «Tendo a una brutale deformazione dei temi che il destino s’è creduto proponermi come formate cose ed obbietti: come paragrafi immoti della sapiente sua legge»: dove del destino si denunciava – come nell’allegorica fantasmagoria incipitaria della Meccanica – la mendace trascendenza mascherale.

Se la poetica, come la parola letteraria, è per Gadda sempre conoscenza, istanza metafisico-morale (astrazione e mimesi, mai disgiunte), la tendenza cui egli qui si ascrive è quella di un realismo “brutale” e per così dire agonistico, che dei fatti e degli eventi, delle occasioni tematiche in essi custodite, vuol cogliere, violandone e torcendone le forme, la verità profonda e inavvertita, la semantica autentica ed occulta – e per questo ne lacera la convenzionale facies etica, la falsa verità di una retorica che, monumentale e solenne, sublima i fenomeni in essenze, e inverte la sineddoche in metafora. Il gesto deformatore dice di no all’oggetto, e così gli dà figura: ed è intrinsecamente etico perché investe ogni aspetto del reale, ogni forma dell’esperienza umana, per restituirne senza limiti la vita, il significato, la parvenza e il suo altro inattingibile, ciò che la “spastica” mimesi letteraria deve portare alla luce nella sua integralità, nella sua riluttanza a ricomporsi nella purezza immune della forma.
Era un programma che non istituiva gerarchie di valore etico o di stile: tutto nella crisi, tutto della crisi è materia del realismo deformatore gaddiano, perché ogni dato è parte del reale, lungo un infinito asse metonimico, che lo scrittore esemplificava nella forma paradossale del catalogo: precipitato della conoscenza del mondo fenomenico, in quanto processo percettivo sostenuto da quella tensione euristica che opera la sintesi del “reale”, per approdare al suo “fine”, ovvero rovesciarsi nella deformazione estrema della morte, cioè della vanità di ogni parvenza – come, esemplarmente, enunciava lo Studio solariano del ’26 focalizzato sulla muta testimonianza kantiana resa in articulo mortis da un cane dal nome allusivamente shakespeariano (La morte di Puk): «Quel suo occhio diceva: “Kant ha ragione”. Diedri e prismi, luci ed ombre e colori vanivano […] adesso moriva: ossia capiva che la rabbia, i prismi, i rumori sospetti e la luce stessa e tutto non erano se non un catalogo vano».
Era qui evocata, quale perento ma già funzionale schema ordinatore dell’esperienza, paradigma che ne istituisce, o ne simula, il senso, la struttura del catalogo: che non per caso sembra presiedere all’elencazione programmatica dei temi e delle tipologie che lo scrittore, di fronte alla crisi di sé e del mondo, ormai disertato da ogni senso e valore, si propone di investire della sua deformazione nel programma di poetica in chiave contrastiva enunciato – teatralizzato – in Tendo al mio fine; dove un esasperato registro parodico, che si incrementa di espressività facendo il verso ai prosatori antichi, deforma la stessa voce dell’autore, ne destituisce, straniandolo, il primato suoi suoi oggetti, lo espone nella sua condizione di crisi, tematizzandola nella esasperazione dello strumento retorico. L’autore non sovrasta la realtà con il suo potere di darle forma: se ne fa aspro e coinvolto testimone, privo di ogni altro viatico morale fuor di un’ostinata rivendicazione della verità, ovvero delle «ragioni oscure e vivide della vita, del suo “devolversi” quale bruniana «deformazione perenne, indagine, costruzione eroica»: dove è facile cogliere l’organica connessione della prospettiva euristica con quella di una strenua soggettività etica: una connessione, anzi un’identità, che è il discrimine della poetica gnoseologica della deformazione.

La deformazione era la forma della «polarità», la trasposizione in codice letterario della formula teorica giovanile adibita a canone gnoseologico: e andava ad investire sia il mondo della crisi storica primonovecentesca assunto a oggetto delle sue narrazioni, sia il modo romanzesco entro il quale Gadda conduceva la sua quête di una realtà non più accessibile entro una prospettiva di senso alla propria coscienza modernista. Il tempo della deformazione si disegnava quale decostruzione tematica e iconica del tempo classico del romanzo, del suo dispiegarsi nel cielo stellato di personaggi in conflitto con un grande destino. Al proprio presente di scrittore che nella vertigine parodica dell’autoglossa – dalle prose memorialistiche del Castello di Udine ai fulgenti «disegni milanesi» dell’Adalgisa – si rendeva egli stesso personaggio di una vicenda senza riserva di senso né forma adempiuta in destino, alla consunzione dei suoi paradigmi di valore, e all’improponibilità di poetiche e strategie espressive che gli consentissero di riattivare l’organon narrativo cui pure la sua formazione aveva attinto, Gadda opponeva il gesto disperatamente etico di una deformazione oltranzistica delle mendaci parvenze del reale, la resistenza di una parola protesa a respingerne l’inautenticità per cercarvi ancora un significato e un valore: «un segno, tenue e forse indecifrato algoritmo in sul marmoreo muro della legge». Ma non teorizzava una verità riposta oltre la forma: bensì giacente tutta e solo in quella relazione oppositiva che produce la rappresentazione in quanto conflitto deformatore, è la trascendenza dell’oggetto, la sua inesauribilità, a rendersi immanente nella deformazione, che la conserva e insieme la rovescia, assumendola in sé senza appropriarsene: il realismo di Gadda, la sua mimesi oltranzista della crisi, si adempie proprio nel mantenere, nella deformazione, non-finito, aperto, incompiuto il suo oggetto (nel temporalizzarlo). Nella deformazione «traspare la trama profonda delle cose che unisce le loro apparenze» (V. Baldi): e se essa è perpetua negazione della forma (nella duplice accezione del genitivo), se la letteratura, per Gadda, può conoscere le cose solo negandone le forme – deformandole -, la verità non starà altrove da questo processo deformatore, non sarà mai da esso sempre salva. Sarà l’altera facies della forma, il rovescio segreto ma “polare” della “parvenza” che nella Cognizione del dolore Gonzalo rifiuta e insieme esita a negare, nell’amletismo modernista che ne sommuove e insieme irretisce il rovello euristico-morale: «Cogliere il bacio bugiardo della Parvenza, coricarsi con lei sullo strame, respirare il suo fiato, bevere giù dentro l’anima il suo rutto e il suo lezzo di meretrice. O invece attuffarla nella rancura e nello spregio come in una pozza di scrementi, negare, negare […] Ma l’andare nella rancura è sterile passo, negare vane immagini, le più volte, significa negare se medesimo. Rivendicare la facoltà santa del giudizio, a certi momenti, è lacerare la possibilità: come si lacera un foglio inturpato leggendovi scrittura di bugìe».

La verità non è essenza affermabile, né mai vi accede la rappresentazione. Scissa dalla Parvenza, ne è lo spettro: la verità della deformazione si attesta impredicabile, perché la sua struttura è duale, nella sua «polarità” alla parvenza, nella sua epifania per negazione. E se «barocco» è il mondo, la vita in quanto intreccio di natura e di storia, orizzonte ed oggetto della «cérnita che la poetica enunciata nello «Pseudo-dialogo» della Cognizione rivendica quale «metodo adibito alla rappresentazione della società», nella «infinita, nel tempo e nel nùmero, suddivisione-specializzazione-obiettivazione del molteplice», la cognizione «metafisica» del «male» che vi si svolge approda alla desolata verità cui già alludeva nel titolo la dichiarazione di tendenza del ’31: l’identità del «fine» con la morte, estrema linea di demarcazione dell’esperienza e del significato, di ogni significato, accessus terminale a una verità decostruttiva e informe, ultimo nome «speciale» della «perenne deformazione che si chiama essere vita», «decombinazione estrema dei possibili», crisi della deformazione e suo trionfo, paradossale suggello alla tragicità di un destino inappropriabile. È la morte la radicale «polarità» inscritta nella deformazione, la verità riposta dentro il segno cui lo scrittore affidava il rastremato riscatto del suo tempo modernisticamente dissolto: «Nulla aveva cercato di possedere. O forse un disegno. Il liberato segno della parola sulla bene decente sua pagina: o forse un pensiero, quello che ci guida avanti, più avanti, […], verso la carità del destino». Il realismo deformatore di Gadda non rinunziava mai alla verità, alla sua spietata cérnita dentro e fuori del tempo: ma la sua conoscenza non accedeva infine ad altra verità che alla deformazione logico-temporale della morte, compimento in figura di un destino modernisticamente rappresentabile solo nel modo dell’allegoria.
Un pensiero riguardo “Deformazione e destino. Gadda”