
La banda del paese e i maggiori premi internazionali, la campagna sarda e i dischi, la scoperta del jazz e le mille collaborazioni, l’amore per le piccole cose e Parigi. Esiste davvero poca gente capace di mettere insieme un tale abbecedario di elementi e trasformarlo in un’incredibile e veloce crescita stilistica. Paolo Fresu c’è riuscito proprio in un paese come l’Italia dove per troppo tempo la cultura jazz era conosciuta quanto Shakespeare o le tele di Matisse, dove Louis Armstrong è stato poco più che fenomeno da baraccone di insane vetrine sanremesi e Miles Davis scoperto “nero” e bravo ben dopo gli anni di massima creatività.
La “magia” sta nell’immensa naturalezza di un uomo che, come pochi altri, è riuscito a trasportare il più profondo significato della sua appunto magica terra nella più preziosa e libera delle arti. Dentro al suono della tromba di Fresu c’è la linfa che ha dato lustro alla nouvelle vague del jazz europeo, la profondità di un pensiero non solo musicale, la generosità che lo vuole “naturalmente” nel posto giusto al momento giusto ma, soprattutto, l’enorme ed inesauribile passione che lo sorregge da sempre. Nel 1984 si diploma in tromba presso il Conservatorio di Cagliari e nello stesso anno vince premi come miglior talento del jazz italiano.
Nel 1990 vince il premio indetto dalla rivista Musica jazz come miglior musicista italiano, miglior gruppo (Paolo Fresu Quintet) e miglior disco (premio per il disco Live in Montpellier), nel 1996 il premio come miglior musicista europeo attraverso una sua opera della Académie du jazz di Parigi ed il prestigioso Django d’Or come miglior musicista di jazz europeo e nell’anno 2000 la nomination come miglior musicista internazionale.
Solo i primi, in una lunga serie di riconoscimenti che proseguono nel presente musicale tra i quali spiccano le cittadinanze onorarie di Nuoro, Junas (Francia) e Sogliano Cavour, la Laurea Honoris Causa conferitagli dall’Università La Bicocca di Milano e la Laurea Honoris Causa della Berklee School di Boston. Docente e responsabile di diverse importanti realtà didattiche nazionali e internazionali, ha suonato in ogni continente e con i nomi più importanti della musica afroamericana degli ultimi trent’anni. Dirige dal 1987 il Festival Time in jazz di Berchidda ed è stato per un quarto di secolo direttore artistico e docente dei Seminari jazz di Nuoro. Nel suo palmares spicca la direzione per un triennio del festival internazionale di Bergamo.
La cultura si ferma a causa del Coronavirus e si ferma il Paese con il rischio che si fermi l’Europa e il mondo. Scrivo ora dall’aeroporto di Düsseldorf in viaggio verso Bologna. Queste due sere ho suonato a Duisburg e Dortmund nella regione della Ruhr. La settimana scorsa a Beirut, che ha problemi ben più gravi del Covid-19. Nessuna fobia e poche persone con le mascherine. Chi le porta indossa quelle che dicono non servano a nulla se non a nascondere un sorriso.
Meno gente in giro tra aeroporti e stazioni ma il mondo va avanti.
Nessuno che ti guarda male perché sei italiano.
Sei piuttosto tu stesso a sentirti in colpa nei confronti degli altri.
Non mi succedeva ai tempi di un paio di Governi fa quando, nella sala d’aspetto degli aeroporti di Berlino o di Londra, esitavo a leggere un giornale italiano pensando al fatto che qualcuno potesse riconoscere la mia nazionalità…
Alberga una sorta di colpa di cui non sai e che rappresenta il vero aspetto virale del problema.
Mercoledì ho un concerto a Stradella, nel piacentino. Dubito che si confermerà anche se ci spero, come ci sperano gli organizzatori che hanno investito tempo e denaro che non avranno indietro.
Sabato sarò a Montpellier, in Francia, città che dovrò raggiungere un giorno prima perché l’aereo Air France che dovrei prendere la stessa mattina del concerto dal Guglielmo Marconi (Bologna) con direzione Charles de Gaulle (Parigi) è cancellato a causa del Coronavirus.
Marconi… l’inventore del globale e delle reti.

Mi chiedo perché si debba cancellare un aereo per andare in un Paese dove le frontiere non sono chiuse. Immagino sia perché la gente viaggia meno, ma chi viaggia deve muoversi e Air France è la compagnia di bandiera francese come Alitalia è la compagnia di bandiera italiana. È come se la Rai spegnesse una rete pubblica perché è poco vista.
Servizi di tutti e per tutti ma “à la carte” come al ristorante, sempre che questo sia aperto.
Si fermano i trasporti e si ferma la cultura.
Soprattutto quella italiana con la quale, in buona parte, il nostro Paese si sostenta.
Chiudono i musei, le biblioteche e i teatri. Chiudono le scuole e i jazz club.
Uno di questi, nel Sud Italia, ha annullato un concerto di un musicista “perché viene da Firenze”, come se essere toscani sia una colpa o necessiti di un passaporto speciale.
A Basilea e a Zurigo suonerò a metà marzo con il bassista svedese Lars Danielsson. Se la Svizzera non deciderà di annullare i concerti questi si faranno per non più di 150 persone e terremo due set di fila. Si sa, il virus non conosce la matematica e colpisce munito di un pallottoliere.
È nella storia (purtroppo) la frase di un Ministro del passato il quale disse che “di cultura non si mangia”. Pare che la frase sia stata estrapolata dal suo contesto originario e anche questa è diventata virale… come spesso accade ormai con una informazione sempre di più errata e spesso responsabile della paura, vomitando notizie anche quando non si hanno e riciclando immagini, suoni e rumori 24 ore su 24.
Come è accaduto a New York l’undici settembre di un anno remoto, a Nizza, Londra e Parigi per Charlie Hebdo, il Bataclan o l’incendio a Notre-Dame quando la cattedrale ha continuato a bruciare sugli schermi televisivi per giorni nonostante l’incendio fosse spento da tempo.
Sparita Greta Thunberg. Spariti soprattutto i migranti che sembrerebbero una volta tanto avere paura di noi ma che, purtroppo, ci sono eccome.
Argomento poco interessante questo.
Non solo per Salvini ma anche per noi, intenti stavolta a essere concentrati su noi stessi e a non sentirci osservati dalla comunità internazionale nonostante non si navighi su un barcone verso una sponda amica.

Resta che di cultura si mangia eccome.
Gli italiani lo stanno scoprendo ora con il calo delle presenze turistiche che rasenta l’ottanta per cento, con il deserto della vita sociale nelle città e con un’economia in ginocchio che faticherà a rialzarsi.
E in ginocchio è il mondo dei lavoratori dell’arte e della creatività.
Quella che perlomeno offre una speranza alla fobia e alla paura che svuotano i supermercati.
Un mondo che è fatto non solo di artisti ma di organizzatori e promoter, di agenti e di maestranze, di uffici stampa e driver, segreterie e grafici, discografici e studi di registrazione, accordatori e facchini, direttori di scena e scenografi, registi e macchinisti, luciai, fonici e direttori di fotografia…
Un mondo composto di un pubblico che chiede messaggi e speranza ma al quale viene precluso il sogno. Seppure sia quello di intravvedere una luce nel buio.
Un mondo, il nostro, fatto di artisti intermittenti che svolgono una professione strana e che non godono di nessun sostegno e protezione che possa metterli al riparo dall’ineluttabile caducità degli avvenimenti.
E non solo quelli di ora.
Intermittenti che si accendono e si spengono come lucciole nella notte.
Si ricaricano di giorno purché un giorno ci sia e sia fatto di luce.
Artisti che quando si spengono non luccicano più fino a quando non torna la notte.
E la notte di ora è sempre il giorno.
Senza che qualcuno riconosca, nel buio, una strada da percorrere.
Una strada introvabile, senza le nostre lanterne.