Federica Fracassi: “Il mio viaggio in Norvegia seguendo le mappe interiori di Ibsen”

In attesa del suo contributo in Voix nel quale racconta La Monaca di Monza di Testori prossimo al debutto per la stagione 2020, vi presentiamo Federica Fracassi con alcuni articoli dedicati ad altrettanti momenti del suo percorso di questi ultimi anni. Incontrate con noi l’attrice votata alle scritture più visionarie, feroci, poetiche che fin dagli esordi ha disegnato un percorso indipendente nel panorama del teatro italiano di ricerca.

Lo spettacolo Rosmersholm ha debuttato il 23 gennaio 2018 al Teatro Franco Parenti di Milano nell’ambito del Percorso Ibsen. Il 29 gennaio è stata inaugurata la mostra “Nient’altro che finzioni. Viaggio immaginario sulle tracce di Ibsen” di Federica Fracassi e Valentina Tamborra presso lo spazio Nonostantemarras.
L’attrice e la fotografa hanno viaggiato toccando le tappe che lo stesso drammaturgo raggiunse nel 1862 muovendosi per la sua Norvegia.
In questa intervista l’attrice racconta il proprio percorso di immersione ed emersione nella drammaturgia ibseniana ed il suo viaggio nei luoghi del Peer Gynt.

9 dicembre 1867: Ibsen scrive all’amico Bjørnstjerne Bjørnson che il suo Peer Gynt è stato recensito negativamente, non è ritenuto poesia. «Tuttavia sono felice del torto che mi è stato fatto. C’è dentro un aiuto, una grazia di Dio: sento infatti le mie forze crescere in proporzione con la rabbia. Se ci sarà guerra, guerra sia! Se non sono un poeta, non ho niente da perdere. Proverò a fare il fotografo. Fisserò i miei contemporanei di lassù uno per uno, come ho fatto con i “parolai”. Non avrò rispetto neppure dell’embrione nel seno della madre, non risparmierò il pensiero o gli umori nascosti dietro alle parole di nessuna anima umana che meriti di non essere passata sotto silenzio». Come è nata la scelta di creare un percorso fotografico? Sembra quasi che Ibsen te lo abbia sussurrato all’orecchio…

Il fatto che tu abbia posto queste parole di Ibsen nella prima domanda della nostra conversazione è segno della grande intuizione del tuo sguardo sul mio percorso artistico. Insieme a Luca Micheletti, che condivide con me questo Percorso Ibsen curando la regia di Rosmersholm – il gioco della confessione e di Peer Gynt (Suite), (entrambe produzioni del Teatro Franco Parenti),  ho molto riflettuto su questo sguardo fotografico di Ibsen, tanto che queste sue righe fanno parte, trasformate, della drammaturgia che abbiamo curato insieme per il Peer Gynt. Ibsen ha sempre e soprattutto scritto per il teatro, è un autore teatrale doc, ma c’è stata in lui anche una lotta lunga una vita volta alla ricerca della giusta posizione artistica per esprimere al meglio la sua visione del mondo. Da un lato ha sempre creduto a tal punto nel suo talento teatrale da infuriarsi, pretendendo sussidi e aiuti economici, critiche e interventi di artisti affermati per sviluppare al meglio la sua opera e il suo percorso artistico, che sentiva necessari. Dall’altro, però, si è sempre detto interessato, più ancora che al teatro in sé, alla ricerca della verità. Era quindi disposto a tradire il teatro, la poesia, qualsiasi mezzo non fosse abbastanza adeguato a “fissare i suoi contemporanei” impietosamente. Il suo sguardo fotografico è volto all’anima, all’interiorità dell’essere umano. L’obbiettivo della sua macchina fotografica si rivolge alla realtà degli organi interni, preconizza la psicanalisi cogliendo moti inconsci e lotte che restano sottotraccia. È stato un rabdomante in questo, un investigatore. Non so se questo sia stato il motore che mi ha mosso al viaggio. Di certo, come Ibsen aveva fatto nel 1862, volevo vedere con i miei occhi la sua terra, i luoghi evocati nelle sue opere, le persone e scoprire me stessa in quel contesto, le mie fragilità e le mie potenzialità, oltre che prendere spunti per i miei personaggi. Ho passato una settimana, ripercorrendo in parte il suo tragitto, con la fotografa Valentina Tamborra, che mi ha immortalata nei panni di altre donne. L’esito di questo lavoro è un progetto dal titolo “Nient’altro che finzioni” in trentadue foto e diari di viaggio, in mostra dal 29 gennaio al 18 febbraio da Nonostantemarras a Milano. “Nient’altro che finzioni” verrà riproposto in aprile al Teatro Franco Parenti. Ho passato anche una settimana sola on the road in Norvegia e anche quella solitudine è stata feconda per il mio studio. Un coraggio nel viaggio in solitaria che non mi aspettavo da me e che mi ha messo in relazione con lo sconosciuto senza diaframmi.

Chi e cosa hai incontrato in questo viaggio?

In questo viaggio ho incontrato innanzitutto la natura. Credo che si debba partire dal paesaggio e metterlo poi in relazione con le mappe interiori che Ibsen tenta di decrittare scavando nell’animo umano. Esistono infiniti brani nelle sue opere, dove sentimenti e moti dell’animo sono paragonati a fenomeni naturali. Cerco nel mucchio: in Rosmersholm si legge “Si abbatteva su di me col furore di una tempesta invernale nei nostri mari, lassù al nord. Che se prende uno, lo trascina con sé, sai… lontano… fin dove vuole… inutile resistere”. In Peer Gynt, ancora, si legge “Ma nel profondo luccica qualcosa di bianco, pare il ventre d’una renna. Mamma, è la nostra immagine riflessa dalle acque del lago, che dal fondo sale alla superficie con la stessa velocità con cui noi precipitiamo”. È una riflessione che può apparire scontata, ma nascere in quei luoghi determina più che mai l’immaginario di un artista, anche di un chirurgo della mente umana come Ibsen, più interessato al dentro che al fuori. Lo specchio è per me il primo elemento distintivo di questo Paese. Il cielo si specchia di continuo nell’acqua e genera due mondi in perenne mutamento, che spezzano un’apparenza unitaria e pacificata creando dialogo e contrasto tra sopra/sotto, realtà/finzione, buono/cattivo e danno potere immaginifico a ombre e riflessi di pari statuto rispetto a quello reale, alimentando la meraviglia. Non è un caso che i Troll, gli spiriti mostruosi della foresta, siano giudicati dai norvegesi presenze vive a tutti gli effetti, ombre interiori, la parte oscura che sempre convive con gli esseri umani e che bisogna tenere a bada per non soccombere all’irrazionalità dell’animale. Ho riscoperto nei musei di Oslo e Bergen i dipinti di Nikolai Astrup, Johan Christian Dahl, Theodor Kittelsen, Edvard Munch, artisti che attuano di continuo questo passaggio tra fuori/dentro e che raffigurano in molti casi gli stessi tópoi iconografici citati da Ibsen nelle sue opere: il castello di Soria Moria, il naufragio, la festa di matrimonio nel Gudbrandsdal, il cavallo bianco. Un paese diviso in due, che vive mesi di solo giorno e mesi di sola notte, dove la vastità della terra e l’esiguo numero di abitanti abitua gli uomini al tempo dell’introspezione, non può che lasciare segni profondi che si incidono nel ritmo di vita e nel modo delle relazioni. Un popolo che Ibsen criticava perché tiepido, che l’autore prima studiò andando a caccia di storie e folklore e da cui poi prese distanza, scrivendo il Peer Gynt a Sorrento in Italia. Un popolo che ho provato a tratteggiare nei miei diari. Ho trovato là persone estremamente ospitali e a me simili, non ho sentito la pesantezza e l’isolamento di cui molti parlano. Ma è vero che ci sono stata d’estate, nella luce. Un popolo libero, che produce energia pulita, che ha cura del territorio, che ama la cultura, l’arte, l’educazione, ma che come in un contrappasso è stato colpito al cuore dall’orrore della strage di Utøya, che si fatica a metabolizzare. L’uccisione politica e folle di quei ragazzi, del futuro della Nazione, ha minato le basi di una democrazia che sembrava più evoluta che in qualunque altra parte del mondo. Il popolo norvegese ha in questa strage la sua prima crepa insanabile nel nuovo millennio, la prima minaccia nella fiducia dell’altro, prima data per scontata.

Questo viaggio in Norvegia in che modo in particolare è intervenuto nel tuo lavoro su Rosmersholm e Peer Gynt?

Ho osservato i luoghi dove le due opere sono ambientate. Ho osservato le persone immaginandomi come alcune figure di Ibsen potessero avere le loro fattezze, i loro abiti, il loro modo di stare al mondo. Una madre anziana e disperata è diventata la mia Aase, la giovane cameriera di un albergo sperduto, Solvejg, gli adolescenti ebbri in giro di notte a Bergen, le Tre mandriane. E poi io stessa mi sono vestita da Rebekka o da Sposa Rapita o da Donna Verde, cercando di perdermi nel mondo contemporaneo con i miei abiti di scena. Ho creato sfasamenti che sono stati utili ad affinare la mia posizione davanti alle opere che dovevo portare in scena. Ho portato come me le luci e l’atmosfera, i locali chiusi e protetti come gli spazi aperti e sconfinati e spero che entrino sottilmente nelle scene che stiamo creando. Ho compreso come la vita e le vicende personali di Ibsen siano penetrate profondamente nei suoi testi. Accadimenti privati si sono trasformati in temi portanti: il fallimento, il senso di colpa, il passato che ritorna, l’attrazione e repulsione per la donna e per l’amore.

Dicevi delle donne. Ibsen propone in Rosmersholm e in Peer Gynt figure femminili in bilico in una dimensione metafisica (anche dell’eros). Qual è il tuo rapporto con queste donne?

Dalla mia ricerca è emersa una complessità del femminile che vorrei a tutti i costi preservare, vivendola in scena in uno squilibrio fecondo, una complessità che difficilmente può risolversi, ma che è portatrice di dubbio e mistero. Ibsen è stato proprio in questo il più grande… ha reso le donne agenti di perturbamento nelle pieghe di una borghesia fatta di apparenza e di cliché, che le aveva rese fino ad allora figurine incolori. C’è sempre un passato rimosso, un mistero taciuto e nutrito durante i lunghi pomeriggi solitari in inverno, l’eco di altri mondi da cui il femminile proviene e che si svela a poco a poco. C’è tanta violenza repressa in queste figure, che non riesco davvero a giudicare come negativa o malvagia. Sono donne ferite e gravate da fardelli quasi impossibili da portare ma anche da abbandonare. E le ferite generano impotenza, ma anche rabbia, desiderio di vendetta. Tentano, sono le uniche ad avere il coraggio di tentare la loro verità, di far coincidere le loro azioni, i loro pensieri, i loro sentimenti. Di togliere il lenzuolo pieno di polvere che copre lo specchio per guardarsi, senza pietà. Spesso soccombono e non riescono a realizzare il cambiamento, ma provano e questo dato è già importantissimo in sé. Rebekka West, in particolare è per me l’enigma. Ha un passato forse incestuoso, di cui lei stessa diventa conscia in un punto avanzato del dramma, un punto fugace, non abbastanza delineato, suggerito ma non a tal punto da sciogliere il mistero per il lettore, tanto che è il suo personaggio è un caso studiato da Freud e da Groddeck. Rebekka è una figura che assume anche un ruolo politico, entra in casa del pastore Rosmer da rivoluzionaria, per minare le fondamenta conservatrici di cui lui è esempio e capostipite. Ma se ne innamora, e questo trasporto erotico e sentimentale mina la sua forza, il suo progetto, la spinge a sobillare insieme allo stesso Rosmer la moglie di lui Beata inducendola al suicidio, ma anche a impantanarsi a tal punto da perdere la forza vitale e la vita stessa, da rifiutare, una volta ottenuti, l’amore, l’eros, il matrimonio, la rivoluzione. Soccombe, come dice Freud, al suo stesso successo e alla fine torna a essere strumento, bambola, obbedendo a Rosmer nell’ottemperare alla sua richiesta finale di suicidio come estremo sacrificio. Ho sempre amato questo personaggio, perché è la lotta e il mistero. È per me l’emblema tragico di chi ha in sé tutti i talenti, ma li indirizza nel posto e verso le persone sbagliate arrivando a smarrirsi. Non riesco a condannarla, a giudicarla. Non potrei portarla in scena, altrimenti. Semplicemente, come in ogni personaggio che affronto, m’interessa viverla e regalarle una parte di me. In Peer Gynt invece attraverserò (a parte Solvejg che sarà interpretata da una giovane cantante) tutte le figure di donna tratteggiate: Mamma Aase, la sposa rapita, la donna verde. Sono figure più bidimensionali, perché figure di fiaba e verso di loro il giovane Ibsen ha uno sguardo più manicheo. Solvejg è l’amore non consumato, l’ideale, la donna angelicata. La donna verde è il perturbamento, l’errore, l’eros. La madre è il fallimento, la tenerezza, le radici. Sarà per certi versi ancora più sfidante dare spessore a questi simboli, funzioni che devono ruotare intorno a Peer perfettamente, per far rilucere il suo viaggio umano, troppo umano.

L’abbandono, il rimorso, l’innocenza e l’attesa, il viaggio, sono tutti elementi dinamici che però si scontrano con una immobilità di questi “esseri singolari plurali” che rigettano la propria co-esistenza? Dietro la poesia e la metafisica si nasconde lo scontro con la morale borghese, ma perché Ibsen ci fa tremare e sembra essere in mezzo a noi, a spiarci ad osservarci?

Non credo che l’immobilità per i personaggi di Ibsen sia uno stato costitutivo, che non può essere minato. In un autore come Cechov, che io amo molto, questa ineluttabilità è forse più presente. Sono, quei personaggi, a tal punto prigionieri di se stessi, da esserne consci in qualche modo e da arrivare a riderne. Sono già oltre, già immobili, già ironici, tragicomici. Sono personaggi per cui spesso proviamo tenerezza, compassione. Ibsen credo che si concentri su un altro nodo, che mostri cioè il momento della possibile lotta, dove realmente si apre una possibilità di scelta che può modificare la propria verità. È nel mostrarci il nostro libero arbitrio che il borghesissimo Ibsen condanna anche se stesso e noi insieme a lui. È nel puntare il dito su tutto ciò che potremmo fare o avremmo potuto fare per realizzare davvero noi stessi nel mondo che le sue opere amplificano l’angoscia della scelta personale e lo scontro drammatico, in alcuni casi, con un destino feroce e già scritto, ma non per questo già metabolizzato o conosciuto da chi lo affronta. I personaggi di Ibsen non rinunciano subito, tentano di andare oltre, sanno di poter andare oltre, ma spesso soccombono. E Ibsen dà spesso alle donne, come abbiamo detto, il compito della ribellione.

Tornando alle donne, alla tua Rebekka, come avete affrontato Rosmersholm?

Rosmersholm è un’opera che ho sempre sognato di portare in scena. Ne parlavo con Luca da quando ci siamo conosciuti e m’incuriosiva che fosse un testo affrontato così poco in Italia, avendo avuto tra l’altro dei precedenti illustri nel ruolo di Rebekka come Eleonora Duse e Piera Degli Esposti. Lavorando al Peer Gynt ci siamo trovati tra le mani la riduzione drammaturgica che ne aveva fatta Massimo Castri negli anni Ottanta, a due personaggi, e ci è sembrata perfetta per noi. Era un’opera complessa e magnifica, ma di apparente semplicità produttiva. Così, ridotta a due individui, ci avrebbe permesso di contare sulle nostre sole forze, con grande libertà di approccio e di dono reciproco. Abbiamo già attraversato progetti sfidanti insieme, ma intuivo che un lavoro a due senza esclusione di colpi avrebbe potuto generare uno scambio umano e attorale più profondo che, partendo da due autonome posizioni teatrali, avrebbe portato entrambi alla scoperta di una terza via, solo nostra, unica e più ricca. E sono molto felice che ciò stia puntualmente avvenendo. All’inizio siamo stati supportati dalla compagnia di Luca, I Guitti, poi Andrée Ruth Shammah, con il suo prezioso impagabile intuito, ha deciso di produrre lo spettacolo e di farlo debuttare ancor prima di Peer Gynt. La regia ha deciso di far partire l’azione a ritroso, dal suicidio di Rosmer e Rebekka, che costretti in un limbo si sfidano alla ricerca della verità, violentemente, tra sensi di colpa, mascheramenti, slanci d’amore e mistero. Il pubblico assiste a una veglia funebre totalmente immerso in una scena horror, a pianta centrale, scosso al pari di noi interpreti dalle luci delle lampade a olio, dal nauseabondo profumo di fiori, dai suoni della vecchia radio che prendono vita, dai lampadari scossi come da un terremoto. È un viaggio ogni sera esaltante e sfinente che credo ci stia arricchendo oltre ogni dire. Un’esperienza rara, che resterà. Uno stato dello stare insieme in scena, altissimo. Non credo che sarà possibile, almeno per me, chiedere di meno a noi stessi nelle prossime occasioni teatrali che ci vedranno insieme in termini di ascolto, verità e coraggio.

Cosa dovrà aspettarsi lo spettatore dal vostro Peer Gynt?

Peer Gynt è un altro tipo di sfida. Innanzitutto è un’opera-mondo, che Ibsen ha scritto in poesia e che per primo ha tagliato in molti punti quando gli sono state proposte le prime messinscena. È un materiale vastissimo e sublime da attraversare, “il Faust norvegese”, a cui stiamo lavorando drammaturgicamente da mesi. Dalle nostre teste sono uscite svariate versioni dell’opera e ora siamo giunti a una formazione corale, con un ensemble di dieci interpreti, che prevede anche un musicista che accompagnerà il lavoro dal vivo al pianoforte, con le musiche originali scritte per l’opera da Edvard Grieg. È una fiaba e come tale i personaggi che ruotano intorno a Peer sono spesso funzioni. Da qui la necessità di un lavoro più esteriore e metamorfico, che possa disegnare ritmi e mondi in continuo mutamento, mantenendo la profondità filosofica ed esistenziale del viaggio di formazione di Peer. È un’opera che ragiona, ancora una volta, sul fallimento esistenziale e che si concentra sul sottile confine tra finzione e realtà. Luca sarà Peer, io sarò le donne. Trovo anche questa distribuzione una bella sfida scenica per entrambi.

Ancora una volta nel tuo percorso affiora una dimensione metateatrale: cosa pensa l’attrice davanti al drammaturgo norvegese?

Ibsen mi ha dato spunti creativi davvero esaltanti. È come se, a partire dalla solidità di un albero teatrale (teatralissimo!) io abbia intravisto la possibilità di nuovi rami, che si irraggiavano, nel vero senso della parola, a partire dall’opera principale. Rami autonomi, che ne prendevano linfa e l’arricchivano. Non c’è un mio giudizio sull’opera da interprete mentre sto in scena, né posizioni registiche che ci portino a tesi critiche dichiarate, quanto meno in Rosmersholm. Sentiamo che è necessario attraversarla e viverla con molta disciplina, senza sbavature, senza riflettere sul teatro, ma facendolo. Tutto ciò che la mia psiche ha partorito di parallelo nell’accostarmi a Ibsen, l’ho travasato nel progetto fotografico, nel viaggio, nei diari, nell’ideazione del piccolo film che abbiamo girato con Samuele Romano per promuovere Rosmersholm… tutte opere ibseniane a tutti gli effetti, anche se metateatrali, che hanno creato ponti tra artisti contemporanei di diverse discipline e oggetti d’arte autonomi e riconoscibili. Mi sono sempre piaciute l’indagine inconscia e la psicanalisi e, ante litteram, Ibsen ci ha scoperchiato il cervello e il cuore. Ho continuato questo suo approccio lavorando per libere associazioni a creare mondi. Molto spesso la notte. Da sola. Al buio. Rapita dalla sorpresa e dalla libertà.

ARTICOLO DI IRENE GIANESELLI

*Quest’articolo è stato pubblicato in una prima versione su Globalist.it il 30 gennaio 2018

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