Vito Signorile: una vita per il Teatro, ai giovani dico di non rinunciare a questo mestiere

Vito Signorile nasce nel 1947, nel 2015 ha festeggiato cinquant’anni di carriera come attore e regista. È ricercatore di canti e racconti della tradizione popolare, cantante, sceneggiatore radiotelevisivo. Come regista ha curato la messa in scena di circa ottanta spettacoli di prosa, ha scritto e realizzato quaranta sceneggiati radiofonici per la RAI. È stato diretto, tra gli altri, da Giancarlo Nanni, Antonio Salines, John McRae, Ermanno Olmi, Nanni Tamma, Sergio Rubini, Michele Placido. Per il Dipartimento Scuola Educazione della RAI ha curato un ciclo di programmi sulle fiabe tradizionali pugliesi. Per RAI Uno ha curato la trasmissione sul Folk italiano “Primo Nip”. Ha pubblicato Stretta la foglia larga la via fiabe della tradizione orale pugliese, I giorni della Puglia rossa lotte contadine in Puglia fino all’avvento del fascismo e ha inciso Pugliata canti popolari pugliesi. Ha sintetizzato le proprie esperienze nell’ambito delle tradizioni baresi nello spettacolo Ragù e successivamente in Tiàdre e Stòrie e Patòrie. Con Gelsorosso Edizioni ha pubblicato Ragù. Alle radici del popolo barese e il ricettario Ce se mànge iòsce, Madonne ce ccròsce! e U Prengepine, traduzione in barese de Il Piccolo Principe. Il suo ultimo lavoro sulla lingua barese è Pinòcchie, dove il burattino di Collodi è diventato proprio un bambino figlio del capoluogo pugliese. In questa intervista, che proponiamo in occasione del suo prossimo impegno che dal 4 al 7 aprile 2019 lo vede protagonista de Il Principino (drammaturgia e regia di Damiano Francesco Nirchio con Annamaria De Giorgio e Danilo Giuva), Vito Signorile racconta la storia del suo Teatro Abeliano il cui nome si deve al matematico norvegese Niels Henrik Abel.

La prima domanda non può essere che sulla storia del Teatro Abeliano.

La storia dell’Abeliano!? Mi fai ripercorrere quarantacinque anni in pochi minuti! Quando siamo nati eravamo ovviamente giovanissimi, innamorati del Teatro e combattuti dal primo momento: questa era all’epoca una professione che richiedeva senza ombra di dubbio di emigrare. Chi avesse voluto fare questo lavoro non aveva alternative: bisognava andare a Roma, Milano, Firenze, Napoli, le città che già avevano una bella vivacità culturale e teatrale e quando abbiamo deciso di rimanere a Bari, questa è stata una mia scelta caparbia (e anche un po’ fortunata): abbiamo voluto, io e il mio gruppo, trovare un luogo dove fare teatro e credo che abbiamo avuto ragione, abbiamo cominciato  con uno scantinato in Piazza Garibaldi, poi siamo andati in un seminterrato sulla II mediana, poi siamo andati a Largo Due Giugno e lì siamo rimasti per ben trentatré anni fino a che non siamo arrivati in questo splendido teatro, qui a Japigia, e questo ci ha dato vigore e vita perché finalmente abbiamo un teatro vero, vero! Lo spazio di Largo Due Giugno era molto bello, molto accogliente, assolutamente agibile con tutti i criteri di legge, però era pur sempre un capannone trasformato. Qui, a Japigia, invece, abbiamo finalmente un bel teatro che ci inorgoglisce sempre più quando arriva un grande attore (e ne abbiamo ospitati davvero tantissimi nella nostra lunga carriera). Perché quando i grandi attori arrivano all’Abeliano rimangono estasiati sia per il contatto col pubblico, sia perché è un teatro costruito con taglio e criterio europeo ed è bello sentire più di uno di loro dire «Questo è uno dei più bei piccoli teatri d’Italia». C’è poi questa bellissima notizia: siamo stati ammessi nel Bando della Regione Puglia per la ristrutturazione delle sale per cui entro quest’anno avremo anche la prima sala danza e avremo una sala prove e un piccolo teatro che mi è piaciuto chiamare Actor Studio con altri cinquanta posti oltre i trecento che già ospitiamo. Siamo felicissimi.

Qual è stato il percorso dei teatranti dell’Abeliano?

La cosa che ci ha caratterizzati fin dal primo momento è stata sempre quella di ospitare delle compagnie parallelamente alle nostre produzioni teatrali, ai nostri spettacoli e al nostro impegno diciamo così individuale di attori e tecnici.  Devo dire con assoluto senso di verità e onestà intellettuale che questa è stata la nostra scuola: la nostra scuola è stata andare a teatro, dai primi tempi quando c’era da fare la coda per andare di corsa al loggione del Piccinni fino alle compagnie ospitate e ai grandi attori. Questo è stato fondamentale. Pian piano siamo diventati un punto di riferimento per la città, poi per la regione, per tante strutture più piccole, per tante associazioni e da un po’ di anni a questa parte credo che lo siamo per molti giovani emergenti, i nostri progetti sono abbastanza affollati, mi riferisco a questo mio progetto sui Teatranti (le prime giornate di studio sono state dedicate a Pirandello, ndr): a me questo termine piace moltissimo perché il teatrante così come lo ha inteso  Pirandello è quello che fa il teatro e parte dal chiodo – come diceva il grande Eduardo – per arrivare poi alla proposta finale al pubblico. Questa è stata un po’ l’essenza della storia dell’Abeliano. È chiaro che la componente passione, innamoramento di questo mestiere ha avuto un ruolo fondamentale perché non so se si sa, quanto si sa, quanto lo si percepisce: da noi, ancora oggi, il nostro è un mestiere non tanto agevolato. Adesso è più un fatto televisivo, di immagine, di apparire, di gossip. I nostri genitori non si ponevano il problema di quali erano i nostri sogni, i nostri desideri per il lavoro al quale ci appassionavamo. Questo ha rallentato, ostacolato: oggettivamente non è un lavoro che ti permette di stare tranquillo, basta pensare che quando quello del teatrante è diventato un mestiere importante anche dal punto di vista del business, immediatamente è diventato appetibile anche per la classe politica. Io le ho vissute tutte queste evoluzioni: negli anni Settanta e Ottanta il teatro italiano era tutto nelle mani di attori e registi, con la fine degli anni Ottanta e Novanta fino ad oggi il 90% del teatro è passato dalle mani degli artisti a quelle degli organizzatori, dei commercialisti, dei politici, è un’altra storia. Anche il rapporto del teatro con l’istituzione scuola non è mai diventato un rapporto istituzionale, ma lo è se trovi (e per fortuna si trovano ancora) docenti, presidi la cui personale sensibilità permette di avere un bel rapporto, una bella crescita. Eppure negli anni, tantissimi spettatori che arrivano a teatro, e questo mi fa immensamente piacere, ci raccontano «Sa io mi sono appassionato al teatro perché sono venuto da bambino all’Abeliano a vedere uno spettacolo che mi ha lasciato un segno». 

È assurdo che nei programmi scolastici non ci sia almeno un’ora dedicata al teatro. 

Vito Signorile ne “Il mestiere di sopravvivere” (1971)

Brava, secondo me il teatro dovrebbe esserci. Non solo il teatro, ma tutto lo spettacolo dal vivo dovrebbe giocare un suo ruolo istituzionale: il teatro in sé è importante perché ti può aiutare nella scuola anche a studiare altre materie scolastiche, ad analizzarle meglio, a drammatizzarle, ad appassionarti di più. Poi ci sono tantissime cose che si riscoprono anni dopo: tutti noi di fronte a Dante, Leopardi ci ponevamo come diciamo a Bari “davanti alla medicina” (all’obbligo necessario, ndr) però fuori dagli schemi scolastici abbiamo riscoperto la grandezza di questi nostri autori straordinari. Ora che ci penso noi abbiamo questa soddisfazione di grande vittoria per aver preso la strada giusta: non abbiamo dovuto emigrare. Anche noi, naturalmente, abbiamo avuto un periodo di grandissimi sacrifici: siamo stati ospiti dei genitori fino a trent’anni e più, oggi magari per altri motivi (guarda la disoccupazione che c’è) si ripete questa tragedia, però questa sorta di dipendenza la vivevamo con pesantezza. Ci sentivamo un peso sulle spalle dei genitori e non lo sopportavamo, avremmo voluto costruirci una casa, ma c’era il teatro da portare avanti. Oggi però grazie a diversi incontri felici, tra singoli, riusciamo ad avere rapporti con l’Università, le associazioni, le scuole, e questo sta aiutando la bella crescita che notiamo nella città. Poi abbiamo avuto una profonda attenzione al sociale, ogni anno mi invento qualche progetto che abbia a che fare con i quartieri e anche con la povertà. Mi ricordo che i primi anni abbiamo fatto  anche spettacoli “pericolosi” come Vietnam concertoUn cantastorie per un compagnoLe stragiC’era ‘na volta un contadino del SudI giorni della Puglia Rossa ( sulle lotte bracciantili in Puglia fino all’avvento del fascismo, ndr). È chiaro che, crescendo, era l’attore che sentiva l’esigenza di confrontarsi con i grandi classici, cosa che per fortuna abbiamo fatto, ma non siamo mai riusciti a cancellare la nostra passione per i diseredati, per le periferie, per gli esclusi anche dal godimento della cultura.

A proposito di pubblico, che ruolo ha avuto la lingua barese?

Vito Signorile ne “Il Principino” (2019)

Questo è un altro capitolo importante per me, perché è stato il mio amore collaterale, ha viaggiato sempre a fianco della mia passione per il teatro. Ma qui, un po’ come per il teatro, credo sia dovuto al caso. Io ho avuto la fortuna di avere una nonna materna che raccontava e come puoi immaginare i nostri nonni erano degli attori straordinari per tenere viva l’attenzione dei ragazzini, mi piacevano queste storie e quando è venuta meno mia nonna ho sentito la necessità di intervistare altre nonne. Giovanissimo sono andato per Bari vecchia a intervistare donne anziane, signori anziani. Ebbi la fortuna all’epoca di intervistare gente di novantacinque  anni, due dei quali erano nati nel 1897: adesso ti porto indietro indietro di due secoli! Questo materiale straordinario mi ha arricchito molto e ogni tanto raccontavo di queste nenie, di questi modi di dire, fare, e gli amici si divertivano molto, interessati. Così nacque il mio primo spettacolo intorno a questa materia e ancora oggi dopo oltre trent’anni non riesco ad abbandonarlo, ha superato le 1600 repliche, un record straordinario: alla 1500 replica la casa editrice Gelso Rosso pubblicò il libro Ragù che era una parte dello spettacolo con un DVD che registrava una delle tante repliche, e il libro è alla quinta ristampa. Poi è venuto Ce se mange iòsce? Madonna ce ccròsce! sulla traduzione orale popolare barese delle ricette quotidiane, esperienza straordinaria: il titolo l’ho mediato sempre da mia nonna che quando si alzava la mattina diceva questa frase come se fosse una preghiera mattutina. Quando ho scoperto invece che il ricettario settimanale era molto rigido e ben costituito mi sono chiesto «Ma perché questa croce?». In effetti la croce era il dover cucinare trecentosessantacinque volte l’anno: le nonne dovevano inventarsi delle varianti. Ho scritto sempre col piglio dell’attore, non sono uno scrittore! Poi i dialetti sono l’ultimo baluardo contro l’assurda globalizzazione, ho voluto offrire un mio modestissimo contributo, oltre ad aver sollecitato il mio compianto amico, il professor Vito Carofiglio (docente all’Università di Bari e alla Sorbonne di Parigi, ndr) a tradurre in dialetto barese Shakespeare, Ruzante, Brassen e ho voluto tradurre prima Il Piccolo principe, poi alcune leggende narrate su San Nicola, poi il Pinocchio che è diventato proprio barese anche attraverso le ricette, e quindi il dialetto è rimasto una grande passione.

A proposito di giovani: qual è il tuo rapporto con le nuove generazioni di teatranti?

Di avere un rapporto coi giovani ne ho fatto una bandiera, non ho avuto esitazioni a commissionare un testo su Bukowski ad un drammaturgo trentenne (Blue Bird Bukowski scritto da Riccardo Spagnulo, ndr), non ho esitato a farmi dirigere da una regista trentunenne (Licia Lanera, ndr), non ho esitato a farmi coinvolgere nelle drammaturgie, nelle collaborazioni vere e concrete di tanti giovani. Vado particolarmente orgoglioso di aver sollecitato questo Ahia! di Nirchio che ha vinto ben tre premi all’Eolo 2017  ed è stato accolto molto bene a Roma. A me piace molto collaborare con le nuove generazioni quando posso, do uno spazio ma senza per questo allentare la presa dall’attenzione, dalla severità con cui bisogna giudicare e quando scelgo una persona è perché effettivamente se lo merita è già un emergente, che lotta coi denti, con passione vera. È un rapporto di grande apertura: poi ci sono rallentamenti burocratici, però tendo sempre, caparbiamente a superarli.

C’è uno spettacolo in particolare che ricordi come fondamentale tra tutti quelli visti, agiti, pensati?

Vito Signorile in “Strindberg di Strindberg” (1982)

Ce ne sarebbe più di uno ma se te ne devo citare uno è lo Strindberg di Strindberg tradotto dal mio amico Franco Perrelli e messo in scena dal compianto Giancarlo Nanni, regista dell’avanguardia classica italiana. È uno degli spettacoli che hanno segnato la mia vita, uno spettacolo che abbiamo portato in giro perfino a Roma, dove in genere si va per rimetterci, però a Roma ho preso critiche straordinarie. Ebbi l’onore di essere sulla copertina de «Il Ridotto» che ancora oggi è la più grande rivista specialistica di teatro e c’era Josephson, l’attore svedese specialista che disse di questo spettacolo: «È la prima volta che vedo in Italia Strindberg come va fatto»… e io mi sciolsi, naturalmente. Poi ci sono tanti spettacoli che hanno dato grandi soddisfazioni creando momenti di grande magia nel rapporto col pubblico. La passione de Criste di Vito Maurogiovanni che ho portato un po’ in giro e anche a Roma: pur essendo in dialetto barese è uno spettacolo che ha fatto tirar fuori fazzoletti dalle tasche delle persone in lacrime ed è lo spettacolo col quale la Rai sede di  Puglia  fece l’ultima ripresa in bianco e nero. Poi c’è il Re Leartradotto e tradito da Vito Carofiglio in dialetto barese: l’ho portato in Toscana in un convegno internazionale su Shakespeare. Fu come se lo avessi fatto in inglese anche se era in barese, si capiva, e ci furono gli applausi, il contatto col pubblico fu reale. Cinquant’anni di attività artistica e quarantacinque di teatro professionale lasciano tanti segni e poi, entrando nel lavoro dell’attore, ci sono i segni indelebili che ogni personaggio lascia. Quando dai tutto te stesso a un personaggio, lui un segnetto te lo lascia: se ci fosse una macchina in grado di fare una radiografia per rilevare queste tracce, troverebbe questi piccoli percorsi, queste tracce su di me.

Una domanda difficile: cosa diresti a un giovane che sta cominciando a fare teatro?

Ti do ragione: questa sì che è una domanda difficile a cui rispondere. Gli direi di provare, di provarsi e di provare fino in fondo, sì, e fino in fondo significa fare verifiche dentro di sé e dentro chi gli sta intorno. Deve avere il coraggio di fare verifiche attraverso chi lo vede e lo ascolta senza essergli né amico, né nemico: il nostro è un “lavoro serio”, difficile ma talmente meraviglioso che… ma sì, gli direi buttati, ma chi se ne frega di tutto il resto! Il teatro, perfino fatto per hobby, è il più bell’hobby del mondo. Non dimentichiamo che resta un gioco straordinario. Ti posso dare testimonianza diretta: quando sali sulla scena, i mali del mondo te li lasci fuori e almeno hai quelle due ore di straordinaria tregua, mai lo sconsiglierei. Uso dire spesso ai miei allievi: il teatro è uno degli ultimi baluardi dove la raccomandazione conta poco. Perché alle ore 21.00 si apre il sipario, ci sei tu e il pubblico e tu o ci sei o non ci sei, e se ci sei si vola: la vera prova è alle ore 21.00.

Articolo* di Irene Gianeselli

* Questo articolo è comparso per la prima volta su Giornale dello Spettacolo (Globalist.it) il 13 febbraio 2018

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