La luce del regno: svegliarsi all’ombra dell’atomica

Ora che i nostri sogni sono abbagliati dal calore mostruoso della minaccia atomica, nel leggere il romanzo “La luce del regno” di Niram Ferretti (Giuntina, 2021) sembra quasi di porsi sull’immagine, più che una visione, che dà il titolo all’opera: chissà cosa e verso dove guardiamo stesi su questo specchio inclinato e spezzato nel centro da cui promanano i raggi di una indicibile e insondabile verità.

Oggi ci chiediamo se stiamo vivendo una guerra vecchia in un mondo nuovo o se la guerra è nuova e il mondo è vecchio. Forse, sono valide entrambe le risposte e se sono vere entrambe, nessuna delle due è quella giusta.

Mattia Almiti, il protagonista di Ferretti, è un cinquantenne in ascolto: di sé, delle perdite e delle conquiste. Il bilancio sembrerebbe essere tutto a suo svantaggio se non fosse per Rembrandt, la sua massima realizzazione come critico d’arte, e per il suo stesso meditare su ciò che è stato e su ciò che è.

Il pensiero è la sua salvezza e, non a caso, è il logos a permettergli di accedere a questa condizione di beatitudine indiscreta: il suono della voce delle persone che non ha saputo amare rimbomba nella sua mente e produce nel suo corpo statico il sentimento della ricerca.

Così l’Oltreuomo, o meglio, il Superuomo cioè la lettura degenere del pensiero di Nietzsche che, suo malgrado, continua a fare proseliti tra i giovani di oggi, si ritrova al tramonto del Novecento coperto di fango e di feci. Ferretti sceglie una voce fredda e analitica fino alla fine per il suo Mattia Almiti, ma ciascun incontro – tra Londra e Parigi, nel cuore di una Europa incompiuta e inconcludente sia politicamente che culturalmente – invece di indebolirne il  rigore lo amplifica e rivela il punto di contatto estremo tra il protagonista e la parte del suo io più problematica: la sua appartenenza al popolo ebraico sta forse proprio in questo rigore, in questo non volersi concedere tregua, nemmeno davanti al riflesso di sé, nemmeno davanti alla consapevolezza di essere a propria volta lacerato dall’amore inespresso e dai conflitti irrisolti.

“La luce del regno” è un ritratto impietoso di ciò che resta di buona parte degli uomini europei dopo un secolo di Storia, ma non offre nessuna speranza accomodante nonostante cerchi nel finale di concedere una fuga escatologica.

Mi risveglio.  Dalla strada arriva il suono di un allarme. Non ho idea di che ore siano ma sono sicuro che è ancora notte. So che non dormirò più. Fuori l’allarme cessa. Mi alzo e vado in bagno per lavarmi la faccio. La finestra del bagno lascia trapelare un lieve chiarore. Mi sono sbagliato, è quasi l’alba. Mi sciacquo la faccia con l’acqua fredda, poi accendo la luce vicino allo specchio. Dimostro ancora meno dei miei anni, mi concedo questa vanità. Nello specchio, sotto il mio viso, come un fossile che lentamente il tempo sta facendo affiorare, inizio a intravedere il volto di mio padre

La luce del regno, Niram Ferretti

“La luce del regno” illumina davvero una crepa profonda nelle coscienze collettive: non solo abbiamo perduto la grazia, ma adesso siamo anche costretti ad accettare che perdere la fede nella sacralità della vita è ben più grave che perdere la fede in una religione, qualsiasi essa sia. Ma a quanto pare, se siamo pronti a concederci una nuova guerra mondiale, non consideriamo poi davvero importante scoprire che la realtà per noi non ha più alcun valore o sacralità. Letto con questo animo, il romanzo di Mattia Almiti nel raccontare un esame di coscienza del suo personaggio costruisce un abile gioco di specchi: tra i tanti riflessi cerchiamo il nostro. Ci può sollevare non trovarlo, ma ci potrebbe spaventare riconoscere in qualche bagliore quello di amici e conoscenti. E allora dove siamo davvero noi mentre questo professore e critico d’arte si aggira tra gli edifici in rovina della sua esistenza?

ARTICOLO DI IRENE GIANESELLI

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