Piccolo Prosimetro della Provvisorietà_Raccontare la separazione

Car* voi che ci leggete, da giorni siamo al lavoro per proporvi nuovi incontri, nuovi viaggi. Siamo al lavoro alla ricerca di parole sincere e oneste, di storie e persone che con il loro prezioso studio possano stare con noi, portandoci ad aprire lo sguardo, ad accogliere questo come tempo di riflessione attiva e creativa.

Così abbiamo pensato a questa rubrica: PPP – Piccolo Prosimetro della Provvisorietà.

Per noi, ha valore di una chiamata alla Poesia.

Aspettiamo le vostre parole (potete scriverci via mail o sui social).

La Redazione di Polytropon Magazine

Per mio padre e per mia madre, che in questi giorni stanno vivendo con grandissima sofferenza la separazione dalle loro figlie, l’insicurezza di non sapere come stiamo, il timore di non essere aggiornati sulle nostre condizioni. Non sono una scrittrice, lascio al capolavoro di un grande autore raccontare per me uno dei sentimenti più intimi e insieme più condivisi che questa reclusione sta diffondendo: la sensazione dell’esilio e della separazione. Presi dalla macchina della vita sociale e dalle nostre personali preoccupazioni o affermazioni, la cosa che più spesso ci capita di perdere è il senso del tempo e anche degli spazi: tutto è vicino, riavvicinabile, recuperabile, raggiungibile, superabile. Molti di noi si sono fermati in queste settimane e stanno sperimentando il tempo sospeso dell’attesa e della distanza. Si tratta di una prova ma anche di un dono; i doni “costringenti” dei re medievali, quelli che non si possono rifiutare ma restano pur sempre doni: un’esperienza di riallineamento che ci costringe a percepire il tempo e lo spazio in termini di reale durata ed estensione. L’effettiva distanza che ci separa dagli altri, l’effettiva durata del tempo che abbiamo a disposizione…

Il sole asciugava le pozzanghere delle ultime piogge. I bei cieli azzurri, traboccanti di luce gialla, i ronzii degli aereoplani nei primi calori, tutto nella stagione invitava alla serenità. In quattro giorni, tuttavia, la febbre fece un balzo straordinario. Il quarto giorno si annunciò l’apertura dell’ospedale ausiliario in una scuola materna. I nostri concittadini che sino a qui avevano continuato a dissimulare l’inquietudine sotto gli scherzi, sembravano per le strade, più abbattuti e silenziosi. Il dottor Riuex decise di telefonare al prefetto: “Le misure sono insufficienti”. “Ho le cifre – disse il prefetto – e sono davvero preoccupanti”. “Sono più che preoccupanti, sono chiare”. “Chiederò ordini al governo centrale”. Il prefetto prese su di sé di aggravare, dal giorno seguente, le misure prescritte. Denuncia obbligatoria e isolamento dei contagiati, congiunti sottoposti a una quarantena di sicurezza. Il giorno dopo i sieri arrivarono per via aerea: potevano bastare per i casi in cura, ma erano insufficienti se il contagio si fosse esteso. Apparentemente nulla era mutato. I tram erano sempre pieni nelle ore di punta. La sera la folla riempiva le strade. D’altronde il contagio sembrò retrocedere e per alcuni giorni, poi, all’improvviso si impennò. Il giorno in cui la cifra dei morti toccò la trentina, il dottor Rieux guardava il dispaccio ufficiale che il prefetto gli aveva passato: “Si dichiari l’epidemia. La città sia chiusa”. Da questo momento in poi, si può dire che l’epidemia fu cosa nostra, di tutti. Fino a qui, ciascuno aveva proseguito le sue occupazioni, al suo solito posto. Ma una volta chiuse le porte, si accorsero di essere tutti presi nel medesimo sacco. In tal modo, ad esempio, un sentimento così individuale come la separazione da una persona cara diventò subito lo stesso di tutto un popolo. Una delle conseguenze più notevoli della chiusura delle porte fu, infatti, la subitanea separazione in cui si trovarono persone che non vi erano preparate. Madri, figli, sposi e amanti che avevano creduto, alcuni giorni prima, di procedere a una temporanea separazione, che si erano abbracciati sulla banchina della stazione con due o tre raccomandazioni, affondati nella stupida fiducia umana, appena distratti, per quella partenza, dalle loro abituali preoccupazioni, si videro di colpo allontanati senza rimedio, impediti di raggiungersi. Si può dire che quest’invasione brutale della malattia ebbe per primo effetto di costringere i nostri concittadini ad agire come se non avessero sentimenti individuali. In verità ci vollero parecchi giorni prima che ci rendessimo conto di trovarci in una situazione senza compromesso, in cui le parole “transigere”, “favore”, “eccezione” non avevano più significato. La separazione brutale, senza sbavature, ci lasciava sconcertati, incapaci di reagire contro una presenza che adesso occupava i nostri giorni. In altre circostanze i nostri concittadini avrebbero trovato una soluzione in una vita più superficiale e più attiva, ma l’epidemia li lasciava oziosi, ridotti a girare in tondo nella loro casa e abbandonati, di giorno in giorno, agli ingannevoli giochi del ricordo. Nelle loro passeggiate senza scopo erano tratti a passare sempre per le stesse strade. La prima cosa che l’epidemia portò ai nostri concittadini fu, insomma, l’esilio. Ben era il sentimento dell’esilio quel vuoto che portavamo costantemente in noi, quella precisa emozione, il desiderio irragionevole di tornare indietro o invece di affrettare il cammino del tempo. Sapevamo che la nostra separazione era destinata a durare e che dovevamo cercare di venire a patti con il tempo. Provavamo la profonda sofferenza di tutti gli esiliati, che è vivere con una memoria che non serve a nulla. Quello stesso passato in cui riflettevamo senza tregua non aveva che un sapore di rammarico. Impazienti del nostro presente, nemici del nostro passato e privi di futuro, somigliavamo a coloro che la giustizia o l’odio degli uomini fa vivere dietro le sbarre. Il solo mezzo per sfuggire a una tale insopportabile vacanza era quello di far correre i treni con la fantasia.

Albert Camus, La peste

DI YVONNE CAPECE

SITO WEB di YVONNE CAPECE – REGISTA, ATTRICE E PRESIDENTE DEL GRUPPO (S)BLOCCO 5 (BOLOGNA): https://www.sblocco5.com/

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