Il teatro prodigioso di Enrico Ianniello

Quando nel 2015 La vita prodigiosa di Isidoro Sifflotin uscì per Feltrinelli, il suo successo non fu casuale: la capacità di Enrico Ianniello di costruire un personaggio radicato in un territorio preciso (l’Irpinia dell’“osso pezzillo d’Italia”) e di dotarlo di una lingua autonoma, il fischiabolario, rappresentava un intervento significativo nel panorama narrativo italiano. Una lingua fondata sul suono e non sul segno, dotata di una propria grammatica ma sottratta al codice verbale convenzionale: già nel romanzo era un gesto politico, oltre che poetico.

A distanza di dieci anni, Ianniello riattiva quel materiale e lo trasforma in un monologo teatrale. La scelta non è una semplice trasposizione: il passaggio alla scena implica una selezione rigorosa e l’instaurarsi di una nuova gerarchia di elementi. L’azione di “rimettere insieme” l’infanzia (mattonella dopo mattonella) diventa il centro drammaturgico, non solo per la sua efficacia simbolica, ma perché consente all’attore di articolare un linguaggio performativo fondato sulla fisicità e sulla processualità.

La regia di Pau Miró sostiene questa linea senza sovrastrutture né estetismi ridondanti. Il disegno luci di Lluis Serra lavora sulla dialettica tra giallo e blu, tra una promessa di calore e una contrazione verso il freddo; e tuttavia, anche nei passaggi più rarefatti, lo spazio non si raffredda mai del tutto. È una temperatura emotiva controllata, che indirizza lo sguardo e mantiene l’attore come fulcro energetico della scena. Il costume di Ortensia de Francesco accompagna con discrezione, evitando ogni deriva caricaturale. Le videoproiezioni di Jordi Homs sovrascrivono il corpo dell’attore con frammenti del passato: non illustrano, ma stratificano. Memoria e presenza si osservano senza mai coincidere, a suggerire che il presente è irriducibile a ciò che è stato. Affrancarsi dalla cicatrice, dall’ombra lunga del perduto: questa è la tensione verso la parte migliore di noi stessi che il monologo mette costantemente in gioco.

Sul piano attorale, Ianniello dimostra una modulazione che non cede alle attese del pathos. I passaggi dall’affabulazione alla sospensione non sono ornamentali: interrogano la frammentarietà del ricordo e la difficoltà di articolare un trauma collettivo come il terremoto del 23 novembre 1980. È in questo quadro che il fischiabolario acquista una nuova densità: il fischio diventa un segnale acustico che produce insieme commozione e rottura, il principio di un atto rivoluzionario capace di ribaltare le assi discordanti del lutto. Non sospende solo il codice linguistico: mette in crisi il protocollo affettivo che spesso governa l’idea di catarsi. Non esiste, infatti, un protocollo per controllare e governare l’essere umano: la catarsi non si spiega in una slide cattedratica, accade. L’unico imperativo è lasciarla accadere: non essere vili, non tirarsi indietro per paura. Accorgersi di avere un cuore capace di tutte le forme (anche della sofferenza e dello strazio) diventa allora un atto critico, una presa di posizione contro i burattinai di ieri, oggi e domani, contro chi tenta di normare l’emozione e addomesticare la sensibilità. Non si educa nessuno dall’alto: Isidoro testimonia che, se mai, ci si può auto-educare. Si sceglie chi diventare, nel bene e nel male, accogliendo la realtà. La vita comprende anche il dolore; e chi riconosce, nel sorriso, le proprie lacrime non è fragile né patologico: è libero. La libertà emotiva è infatti un’esperienza radicale di prossimità, non un esercizio di controllo. Qui la risonanza con il prologo giovanneo «In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio» non ha nulla di teologico in senso stretto, ma richiama un dato essenziale: ciò che conta non è soltanto il dire, ma l’essere presso, l’essere accanto. La prossimità all’esistenza è tutto. È la condizione che permette alla catarsi di accadere e alla meraviglia di farsi gesto politico. Senza prossimità non c’è rivoluzione possibile; senza prossimità non c’è teatro (o libertà) che tenga.

Questa libertà si manifesta nel corpo scenico di Ianniello. Non interpreta soltanto un personaggio: costruisce una postura complessa, un corpo attraversato da esperienza e perdita ma ancora permeabile alla meraviglia, elastico. La meraviglia, qui, non è sentimentalismo: è una categoria politica, un’arma contro la violenza della natura e contro le pseudo-rivoluzioni svuotate di senso. Il fischio ne è il vettore acustico: un suono minimo che apre uno spazio possibile, divergente.

Gli oggetti scenici (la farina che invade il palco, l’idrolitina che sfrigola, le mattonelle infrante da rimettere insieme) non sono simboli convenienti, ma materiali che istituiscono un rapporto diretto tra memoria e concretezza. Il monologo non tenta di chiudere la ferita del terremoto irpino: ne riconosce la persistenza e la mette in scena come tensione ancora attiva, senza offrire soluzioni conciliatorie. È un gesto che si colloca con naturalezza nella grande tradizione drammaturgica e attorale napoletana, da Eduardo fino a Enzo Moscato, passando per Annibale Ruccello: una linea in cui il dolore non viene sublimato o trasformato in una insopportabile iperbole mitizzante, ma attraversato e restituito in forma critica, cioè nel movimento emotivo reciproco tra attore e spettatori.

Chi ha letto il romanzo non deve aspettarsi una trasposizione imbolsita dalla promessa di una fedeltà impossibile: il monologo opera una riduzione, una distillazione della materia originaria. Ma questa sottrazione è produttiva: permette di costruire un oggetto scenico autonomo, rigoroso, che restituisce l’ossatura della storia con una forza diversa, non derivativa ma rifondata.

Lo spettacolo mostra come il teatro possa lavorare sulla memoria senza monumentalizzarla e sull’emozione senza manipolarla. E come un semplice fischio possa diventare l’asse acustico di una rivoluzione minima, ma decisiva: una rivoluzione fatta di presenza, di ascolto, di meraviglia.
L’immaginazione al potere non è una formula: è uno stato di libertà.

Produzione: Teatre Akadémia Barcelona / La Fanfola, Barcelona / Casa del Contemporaneo, Napoli
Regia: Pau Miró
Disegno luci: Lluis Serra
Costume: Ortensia de Francesco
Videoproiezioni: Jordi Homs
Responsabile di produzione: Meri Notario

#Chièdiscena 

Dal 28 al 30 novembre 2025 al Teatro Civico 14 (Caserta), 17 – 19 aprile Teatro Gustavo Modena (Genova), dal 24 al 26 aprile 2026 Teatro Biondo (Palermo).

ARTICOLO DI IRENE GIANESELLI

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