Cinema è luce: Fellini, Kubrik e gli altri

«Per me il cinema è luce» diceva Fellini e a chi domandava cosa rappresentasse, invece, per lui la luce nel cinema rispondeva: «Se il cinema è immagine, la luce è evidentemente il fattore essenziale. Nel cinema la luce è idea, sentimento, colore, profondità, atmosfera, stile, racconto, espressione poetica».

Proprio come nel teatro, anche nel cinema la luce non è solo un fenomeno fisico e sensoriale ma un elemento essenziale per la poetica della narrazione, un linguaggio fatto non solo di intensità, qualità, direzione, temperatura, colore, ma anche e soprattutto di potenzialità emotive.

L’illuminazione, soprattutto quella extra-diegetica di una scena o di un attore, guida la visione dello spettatore, ne influenza le percezioni e la comprensione e impone un certo tipo di lettura a cui lo spettatore non può e non conviene che si sottragga se vuole cogliere il senso del racconto.

Impronta di stile, tanto da costituire la firma specifica di molti registi, la luce cinematografica si adopera sempre con un significato ben preciso: dai contrasti netti quando serve a delineare un dramma psichico o situazioni drammatiche, alle sfumature morbide quando serve a rivelare una certa omogeneità spaziale, priva di tensione.

Il modo di illuminare la scena cinematografica ha subìto un’evoluzione necessaria alle diverse modalità di racconto succedutesi nel tempo: dal cinema classico narrativo che impone la logica del racconto lineare in cui la luce è asservita a una modalità narrativa centrata intorno alla figura del personaggio (non solo nei suoi aspetti esteriori ma anche interiori) e che favorisce nello spettatore i processi di riconoscimento, proiezione e identificazione, al cinema moderno in cui assolve il compito di corrispondere alla realtà psicologica del momento o ad un effetto di spettacolarizzazione.

Da un punto di vista diegetico la funzione più evidente è quella percettiva e spaziale, attraverso cui la luce rivela e costruisce visivamente la profondità dello spazio in cui si svolge l’azione, definendolo e caratterizzandolo emotivamente.

La giusta illuminazione può contribuire anche alla costruzione drammatica dei personaggi ed alla percezione dei protagonisti attraverso una maggiore visibilità degli stessi nelle scene di dialogo.

Una funzione molto importante è quella compositiva, attraverso cui l’illuminazione scenica evidenzia elementi significativi che altrimenti passerebbero inosservati ed anche quella di accompagnare il ritmo del montaggio attraverso il contrasto tra scene illuminate in maniera differente.

Una funzione essenziale che spesso diventa strumento per evidenziare lo stile di un regista rispetto ad un altro è quella simbolica, attraverso cui la luce assurge al ruolo di metafora visiva che contribuisce a trasmettere il senso di un episodio o di un intero film: come nella maggior parte dei film di Spielberg in cui la presenza di una luce abbagliante è metafora di un’epifania conoscitiva, momento decisivo attraverso cui il terrestre e l’ extraterrestre si incontrano.

Anche nel cinema di Kubrick rappresenta uno dei più alti valori simbolici: in Shining per esempio, anziché seguire i canoni di un genere che predilige il buio, si serve della costante presenza della luce artificiale nell’ Overlook Hotel allo scopo di annullare i confini tra giorno e notte, mentre in Barry Lyndon farà la scelta coraggiosa di raccontare il secolo dei lumi attraverso il solo uso della luce naturale e negli interni la sola luce calda delle candele.

Un altro sapiente cultore della luce ai fini espressivi è stato Hitchcock che l’ha sperimentata attraverso l’utilizzo di colori e forme, spesso attraverso l’uso del controluce a delineare le sagome, come in La donna che visse due volte, in cui campeggia per buona parte del film l’uso di una luce verde al neon che disegna la sagoma della donna protagonista e riprende il neon ad intermittenza sull’insegna dell’hotel attorno a cui ruota il film.

Uno dei registi contemporanei di cui ammiro il linguaggio luministico è Alfonso Cuaròn, non a caso Oscar per la fotografia di film come Gravity e Roma, in cui la luce è cartina al tornasole di un forte divario sociale, quello tra le classi meno abbienti, raccontate nel film attraverso un’illuminazione povera e quelle la cui posizione privilegiata si esprime anche e soprattutto con i tanti punti luce delle scene in interni.

Insomma non è un caso se già dalla fine dell’Ottocento la luce ha rappresentato un segno di emancipazione sociale, ed il solo privilegio di poterne disporre in qualunque momento aumentando le ore di luminosità equivale a  ciò che ci ha dato la possibilità di vivere e gestire al meglio le nostre esistenze e le nostre tensioni conoscitive, estetiche e poetiche proprio come dimostrano film e prodotti audiovisivi. «Il cinema» tornando a Fellini «senza la luce non può esistere».

ARTICOLO DI KATIA MANIELLO

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