Chi è il vero terrorista? Il 6 dicembre a spazio SCENA a Roma l’omaggio a Volonté con il film antifascista di de Bosio
Sabato 6 dicembre alle ore 18 a Spazio SCENA (Roma), un evento speciale ha reso omaggio a Gian Maria Volonté a trentuno anni dalla sua morte, avvenuta sul set del film Lo sguardo di Ulisse di Theo Angelopoulos il 6 dicembre 1994. In occasione di questo anniversario è stato proiettato Il terrorista (1963) di Gianfranco de Bosio, recentemente restaurato in 4K grazie alla collaborazione tra Lyre, Titanus e Comitato Nazionale per il centenario della nascita del regista, morto a Milano nel 2022. La proiezione è stata accompagnata da un incontro con Stefano de Bosio, Patricia Barsanti e Giovanna Gravina Volonté, preceduto dai saluti istituzionali di Lorenza Lei e Massimiliano Smeriglio.

Il restauro non è un semplice fatto tecnico, ma un atto culturale. Come ha ricordato Patricia Barsanti, curatrice del progetto per la società cinematografica Lyre, Il terrorista ha rischiato di non essere mai recuperato: negativi introvabili, dieci anni di ricerche, un’opera sull’orlo della rimozione. Un rischio materiale che riflette, in modo eloquente, il destino simbolico del film, rimasto a lungo ai margini nonostante il premio del SNGCI alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia del 1963. Un film poco assimilato e poco celebrato perché, ancora oggi, profondamente scomodo.

Liberamente ispirato alla figura del partigiano Otello Pighin e basato sulle esperienze personali del regista, Il terrorista è ambientato nella Venezia del dicembre 1943 e segue le azioni del GAP guidato dall’ingegnere Renato Braschi, interpretato da Gian Maria Volonté con una misura disarmante. Stefano de Bosio ha ricordato quanto il padre fosse colpito dall’approccio dell’attore al personaggio, accennando anche all’aneddoto privato di una giovanissima Raffaella Carrà, all’epoca allieva attrice, che compare nel film e che si è presa cura di lui sul set mentre il padre lavorava al film.
Chi si aspetta però un rapporto “sul terrorista” nel senso più immediato del termine sbaglia prospettiva. Resteranno delusi quanti oggi cercano di consolidare l’equazione gappista = assassino senza scrupoli, tanto cara a una certa destra antidemocratica. Il terrorista non mette in scena l’eroismo armato, ma lo stato morale e politico dell’Italia dopo l’8 settembre 1943, quando la Resistenza non è ancora mito fondativo, bensì scelta lacerante (a volte solo di comodo), priva di garanzie e gravida di conseguenze (per chi ci crede davvero e non ha protezioni di altro tipo).
La struttura del film è quasi processuale: non un processo giuridico, ma un processo intellettuale e morale ai partiti impegnati nell’opposizione al fascismo. Da un lato liberali, democristiani e comunisti (memorabile un José Quaglio doppiato da Luigi Vannucchi, che sembra anticipare la linea ambigua di un certo togliattismo e dei suoi epigoni) dall’altro socialisti e Partito d’Azione, bollati come “pericolosi” gappisti all’interno dello stesso CLN perché meno aderenti alla logica della prudenza e della convenienza. Ne emerge un ritratto impietoso: professori universitari (indimenticabile Tino Carraro), aristocratici in declino, professionisti borghesi in cerca di legittimazione, figure sospese tra antifascismo dichiarato e prudenza interessata. De Bosio rifiuta ogni costruzione eroica collettiva, preferendo individui attraversati dal calcolo, dalla paura e dalla tentazione del compromesso che si contrappongono a figure nitide di onestà intellettuale e di integrità etico-politica a tratti commovente.
Il gesto più radicale del film sta proprio qui. Il centro non è tanto Braschi, quanto il sistema umano e politico che lo circonda. Braschi è un uomo pulito perché assoluto nella sua scelta: ha deciso di resistere senza condizioni, anticipa la bellezza intoccabile di Giordano Bruno, che Volonté interpreterà non a caso pochi anni dopo. Tenero e amaro il confronto con la moglie, interpretata da Anouk Aimée, figura che restituisce il peso umano di una scelta totalizzante. Il dialogo con la donna amata sembra già prefigurare lo sfacelo a noi contemporaneo (“Fra qualche anno la gente saprà raccogliere l’eredità della nostra lotta? A volte temo che sia tutto inutile…” così si potrebbe riassumere il succo del discorso). Lo sfacelo segnato dal ritorno dei totalitarismi (non solo in Europa) e dal tradimento degli ideali resistenziali da parte di quegli stessi “democratici” e “liberali” pronti oggi ad allinearsi ai nuovi fascismi.

Ma il cuore del film è altrove: nella rappresentazione del falso antifascismo e dei falsi partigiani, di chi si proclama dalla parte della libertà mentre negozia, rinvia, mercanteggia e vende i compagni, questo è il vero terrorismo. L’interpretazione di Giulio Bosetti nel ruolo di Ugo Ongaro, collaborazionista dei nazifascisti, è esemplare. Il tradimento non è urlato: è razionale, addirittura ragionevole, pulito, autosufficiente e in sé concluso (e, infatti, non si spiegano le ragioni del vero terrorista-collaborazionista, perché sono le ragioni di un uomo compromesso con il potere, che agisce senza esplicitare sino in fondo a sé o agli altri il processo di pensiero). De Bosio mostra anche come l’antifascismo di troppi non coincida automaticamente con una rottura reale con il fascismo. Antifascisti furono anche liberali e democristiani, è bene ricordarlo a chi oggi strumentalmente compone l’equazione antifascista=comunista. Ma il punto è che il suo film smaschera le ambiguità, il gradualismo, l’incapacità (o la rinuncia) ad accettare l’inconciliabilità tra libertà e compromesso con il regime.
Forse Il terrorista è stato a lungo rimosso proprio per tutte queste ragioni. Perché espone le contraddizioni di un CLN di fatto politicamente immaturo, il miraggio delle mediazioni impossibili, il doppio gioco dei collaborazionisti e, sullo sfondo, una verità più inquietante: il fascismo non come semplice patologia storica, ma come comodità, come forma rassicurante di delega a cui si può sempre tornare quando la reazione diviene l’orizzonte facile della rimozione del sé e delle sue pulsioni etiche e civili. Gli uomini, sembra suggerire il film, amano le proprie catene; e quando non vogliono sapere chi sono (o quando capiscono che è meno dispendioso dimenticarsene), affidarsi a chi decide al loro posto diventa una protezione accettabile, persino desiderabile.
In questo contesto, il gesto più potente di Volonté è quasi impercettibile. Renato Braschi si toglie gli occhiali quando deve parlare con totale trasparenza ai suoi interlocutori. Non è un invito edificante o moralista (o, peggio ancora, paternalista) a “guardare il mondo da una prospettiva diversa”, ma un atto etico: parlare senza filtri, senza schermi, senza ipocrisie, senza schermi. È l’opposto del terrorismo autentico, quello del doppiogiochismo. Non l’azione dei gappisti, che una certa lettura revisionista continua a sovrapporre meccanicamente alla figura del terrorista, ma l’atteggiamento di chi finge di stare dalla parte giusta mentre lavora per il nemico, per puro tornaconto.
È la stessa logica che, durante anni di piombo e persino in tempi più recenti, ha alimentato l’equazione semplicistica e mistificatoria terrorista = comunista, rimuovendo il terrorismo fascista, le stragi di Stato, i depistaggi e il rovesciamento sistematico delle responsabilità. Un dispositivo di potere prima che una lettura storica, che Il terrorista smaschera con vent’anni di anticipo e con una lucidità impeccabile. Rivedere oggi Il terrorista, nella sua versione restaurata, significa confrontarsi con un film che non celebra la Resistenza, ma la interroga. E che continua a disturbare non perché parli del passato, ma perché smaschera una disposizione sempre attuale: la tentazione di chiamare “prudenza” ciò che è rinuncia, e “realismo” ciò che è paura di scegliere.

Un dato degno di nota: alla proiezione e al successivo dibattito moderato da Antonio Medici (coordinatore generale della Scuola Volonté), presenti, tra gli altri, il critico cinematografico Fabio Ferzetti e l’attore Fabrizio Gifuni, i giovani (registi, attori, sceneggiatori, giornalisti, critici) si potevano contare sulle dita di una mano sola. E pensare che questo è un film che fa scuola.
