Who’s afraid of Anna Magnani?

Anna, esordio alla regia di Monica Guerritore (2025), è stato presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma 2025 nella sezione Grand Public, in sala dal 6 novembre 2025.

Mi capirà Edward Albee se per scrivere di Anna, il film che Monica Guerritore ha mirabilmente prodotto, diretto e interpretato, mi permetto di citare in modo non troppo indiretto il suo play Who’s afraid of Virginia Woolf? che debuttò nel 1962.

Il gioco di parallelismi tra il dramma e il film (certo, non ci si basi sulle trame, si badi alle simmetrie, pure a quelle interne di una sceneggiatura solida e di una narrazione cinematografica matura) emerge in modo naturale godendo di 112 minuti intensi, affatto retorici. E il rischio dell’omaggio posticcio come le maschere dei talent show che tentano il “tale e quale” c’era eccome (del perché ci si stia abituando alla replica delle repliche televisive allo sbaraglio non mi occuperò in questo articolo, ma il contesto in cui oggi il pubblico italiano guarda ai biopic è questo e bisogna considerarlo). Come pure c’era il rischio del melenso melò, del funere mersit acerbo, del pietismo e del moderatismo borghesi che affliggono incontrastati il cinema contemporaneo. Ma la protagonista ama, vive e lotta intensamente, bisogna proprio avere espulso i sentimenti per non sentirsi attratti dal tumulto di questa autenticità.

Anna è un gioco della verità, crudele tanto quanto quello di Albee.

Guerritore smaschera i piccolo-borghesi, gli ex-fascisti (si veda come la Magnani ironizza con e su Montanelli con arguzia), e i compagni sedicenti tali, gli amici e le amiche che ci sono, ma fino a un certo punto, fino a che, tutto sommato, conviene stare accanto alla diva, fino a che non risulta troppo ingombrante. La regia è, a tratti, una chirurgia senza anestesia, che mostra con la dovuta assenza di carità proprio l’architettura asfittica di pettegolezzo e approssimazione, di incoscienza dal fascino indiscreto, di macinazione del talento non sottomesso che Pasolini detestava e a cui opponeva le sue geometrie geniali, le uniche in grado di rompere la rete di protezione e di sconvolgere le trame.

E, non a caso, Pasolini è citatissimo nella costruzione dell’immagine: la Magnani cammina spesso al centro del carrello a precedere, una scelta precisa, che morde il petto dello spettatore. Guerritore-attrice va oltre l’esercizio mimetico, restituendo a Mamma Roma la sua forza archetipica, fuori da qualsiasi tassonomizzazione. Il guaio, eccolo, che Pasolini comprese solo dopo avere girato il film: la Magnani era oltre i suoi personaggi, ma quell’oltre, politicamente, significava l’anarchia più materica che il cinema non poteva valorizzare sino in fondo, nemmeno quello stesso di Pasolini, per quanto onesto e altrettanto puramente anticonformista.

In alcune sequenze, come quella calco della Roma città aperta di Rosselini, o nei saluti al pubblico della sua Medea in teatro (come non ripensare alle parole di Eduardo devoto e ammirato in una delle ultime interviste da quella tournée), ci sono dei lampi negli occhi, una piega del viso, un tratto spesso del volto che si disvela dietro una ciocca di capelli che sono semplicemente impressionanti per quanto sublimi. Essere Anna Magnani significa non temerla, esserne degne. Guerritore fa bene a non temerla, solo una donna altrettanto immensa avrebbe potuto permettersi di prestarle il corpo e la voce per farla tornare a dirci “vi vedo” e “non chiedo e pretendo niente da nessuno, nemmeno da me stessa”.

C’è tutta Magnani in Anna (dal 21 marzo del ’56 come nottata zero in attesa dell’Oscar, con flashback sapientemente dosati fino alla morte), dalla Rosa tatuata che Tennessee Williams scrisse per lei, alla Voce umana, fino alla Lupa (che Guerritore stessa ha portato in teatro) e a quell’impareggiabile Sciantosa del ’71. C’è tutto: gli slanci, gli abbattimenti, ma, soprattutto, sopra tutto, la grazia. È rara tanta grazia (persino nella scelta di dedicare il lavoro al compianto Andrea Purgatori), distribuita in concertati impeccabili – gli attori sono tutti straordinariamente intonati – e nel ritmo tagliente dei dialoghi e del montaggio. Sussurri e soffi aboliti (finalmente, quanto cinema non vuole farsi capire e inciampa nel dire!), la regia di Guerritore restituisce al cinema il senso della pienezza vereconda dell’immaginario.

Avrebbe potuto esserci volgarità, ma Magnani non era volgare, non avrebbe potuto esserlo Guerritore e non lo è neppure la lingua di Roma, sebbene il nostro tempo non faccia altro che tentare di ridurre a folklore e kitsch il romanesco e le lingue regionali in generale (e non solo al cinema). Non lo è Tommaso Ragno che nel ruolo di Rossellini consegna una lezione su come l’attore può (e deve, se ne è davvero capace) gestire le intenzioni. Non c’è uno sguardo di troppo, non c’è goffaggine o fatica, ma una misura di trasparenza che gestisce tutta la semplicità disarmante di un uomo complesso, quale Rossellini è stato.

Poi, certo, il film è finzione, Magnani e gli altri sono nel passato, arrivano nel presente a chiederci un ascolto di cui, forse, non siamo fino in fondo capaci, perché c’è ancora chi ha paura di Anna Magnani. E che sia tutto un gioco senza esclusione di colpi lo si comprende persino dagli eleganti titoli di testa, dal fazzoletto lanciato che bianco si trasforma nel titolo del film e si scioglie quasi nel ventre notturno di una Roma che, finalmente, non è una grande bellezza, ma si incarna nella protagonista. Roma non più sfondo ma radice amara e, per questo, atterrita nella vulnerabilità, finalmente essenza trionfale. Il carisma spettrale dell’Isola Tiberina, la forastica energia del Tevere fanno il resto.

La Guerritore non si risparmia: il film è generoso, potente e riesce a combinare due dimensioni. Quella didascalica, che testimonia il passaggio, quasi miracoloso nell’italietta pronviciale post-fascista, di un’interprete-autrice, padrona di sé stessa e quello poetico che rifulge nell’intimità discreta che non cade mai nel prurito di certi biopic che pure siamo stati costretti a subire, da spettatori, si intende. Misura, ecco, grande misura nel dosare queste componenti sono il segno di una regia matura (che, certo, non stupisce considerando l’esempio che Guerritore è, da sempre, in teatro e al cinema).

Non ho ancora risposto alla domanda. Chi ha paura di Anna Magnani?

Donne e uomini, oggi come allora, non le potevano perdonare la sua libertà. Libertà dalla legittimazione maschile, dal cognome di un uomo per sé e per il figlio, anche. Del resto, fa paura una donna che sa proteggersi dalle insidie di un sistema retto su equilibri di interesse privati e pubblici. Come si può tollerare una donna che contesta apertamente: “Puoi essere la moglie del produttore, ma quel ruolo non fa per te!” (e Moravia ebbe ragione nel suggerire lei per la Ciociara, ma avrebbe dovuto difendere quella scelta). È tremenda una donna che non sta zitta (come pure l’amica sceneggiatrice Suso Cecchi D’Amico le suggerisce per prudenza), che non accetta di essere ridotta a manichino, che decide e sceglie se dire una battuta e come dirla. Magnani vinse l’Oscar contro tutto e tutti, contro gli uomini che non erano minimamente all’altezza del suo talento, incapaci di mettersi al servizio, fino in fondo, della sua capacità viscerale di abitare un film o un palcoscenico. Forse troppo vigliacchi, invidiosi o, peggio, del tutto inadatti a sostenere un’intelligenza viva e massiccia come il suo sorriso.

Donne e uomini, ancora hanno paura di Anna Magnani, perché Anna Magnani non poteva essere controllata, messa a soggetto e replicata, oggettificata e passata di mano in mano, esisteva e non aveva alcuna intenzione di chiedere il permesso. Questa è l’essenza della libertà di una donna, un discorso politico che ghiaccia il sangue alle reazionarie e ai reazionari e che, ancora oggi, in altri contesti (sociali e culturali) si preferisce strumentalizzare e indebitamente relegare a frasi di convenienza e a comportamenti prevedibili e rassicuranti. Per escludere, sanzionare e censurare: proprio la sorte che toccò all’attrice dopo l’Oscar.

Il film, come la sua protagonista, non poteva che fare il gioco della verità cercando altrove rispetto al non detto e all’evocato: quando la macchina da presa torna a essere uno strumento per sventrare l’ambiguità e dire le cose come stanno, significa che non tutto è perduto.

E del resto, conta solo la vita, conta solo ciò che è vivo. Anna è viva.

ARTICOLO DI IRENE GIANESELLI

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