L’attore Glauco Mauri è morto il 28 settembre 2024, lo ricordiamo con una intervista del 2015.
Rieditare questa conversazione con Glauco Mauri non è doloroso, sebbene la circostanza in cui la pubblichiamo lo sia. Glauco ti dava subito del “tu”, raccontava con pazienza, ascoltava con attenzione e curiosità, come poche volte ho avuto modo di apprezzare. Vederlo in scena era una lezione, non soltanto di teatro e io pensavo di vederlo ancora sul palco, nella stagione stava già proponendo De profundis di Oscar Wilde. Quando ho saputo che non c’era più ho pensato che è morto in scena: perché il teatro è l’arte che prepara al lavoro di vivere.
La Compagnia Mauri–Sturno porta sulle scene in questi giorni Una pura formalità, versione teatrale del film di Giuseppe Tornatore del 1994. Glauco Mauri, ne ha curato la drammaturgia e la regia. Lo spettacolo sarà al Teatro Goldoni di Venezia dal 9 al 12 aprile e chiuderà la stagione 2014-2015 al Teatro Carcano di Milano dal 15 al 26 aprile.
Qual è stato il tuo approccio al testo – soggetto e sceneggiatura – di “Una pura formalità”? Quale aspetto specifico del testo ti attrae?
Il film mi ha subito interessato. Quello che mi colpì, ripensandoci, fu il rapporto che si instaura tra Onoff e il Commissario. Subito mi tornò alla mente l’incontro-scontro tra Porfirij e Raskolnikov nel Delitto e Castigo di Dostoevskij: Raskolnikov vuole spingere Porfirij a confessare spontaneamente, non vuole denunciarlo per il suo delitto, anzi, tiene alla sua dignità. Il Commissario di Una pura formalità con ironia, tenerezza, comprensione, ma anche violenza è molto vicino a Raskolnikov. L’idea è questa: c’è un uomo che aiuta un altro uomo a capire sé stesso, a capire la vita. Lo aiuta a ricordare tutto quello che ha voluto scordare perché troppo doloroso. Quante volte ci capita di dimenticare gli amori che abbiamo ucciso con il nostro egoismo, le cose sgradevoli che abbiamo fatto? Non bisogna mai dimenticare quello che di sgradevole abbiamo fatto: perché la vita è un viaggio stupendo, affascinante, ma anche terribile.
Come hai ricostruito nella messinscena, nel gesto teatrale la frenesia e lo spasmo febbrile che nel cinema sono date dagli spostamenti rapidi della macchina da presa e da inquadrature feroci, primi piani diretti? Come si realizza a Teatro, dove l’attore è coinvolto in una esperienza totalizzante, quello che al cinema è reso essenzialmente attraverso la sensibilità del regista?
Il Teatro è molto gestuale, ma la parola è “lo strumento base”. Il cinema usa elementi tecnici che a teatro non ci sono. La fantasia del teatro è positiva: la finzione sul palco è molto più interessante della vera realtà della vita. Una neve che cade su un palcoscenico è certamente più bella e “reale” di una neve “vera” in un film. Penso sempre in proposito a Il Casanova in cui Fellini realizzò un mare finto fatto di plastica: anche se era un mare “teatrale”, era volutamente un mare “finto” che se fosse stato fatto a teatro, però, sarebbe parso anche più reale della realtà. Il teatro ha questa magia.

La situazione che vive Onoff è decisamente kafkiana, è una situazione ambigua in cui il commissario sembra essere altrettanto coinvolto nel senso di smarrimento dello scrittore: tra i due c’è una forte empatia. Potremmo definire questi due personaggi come parti di un unico personaggio che cerca di ricostruire e comprendere se stesso?
A questo non avevo pensato. Penso invece che tutti gli esseri umani siano uguali, abbiano uguali sentimenti. Penso a Onoff e al Commissario come a due persone completamente diverse. Però questa potrebbe essere un’altra interpretazione interessante.
In questa storia il principale motore di ogni contrasto è la morte: proprio Onoff ha dimenticato la sua stessa morte. Il compito del commissario è fargli ricordare la sua intera esistenza fino a comprendere le ragioni del suicidio. Il compito del commissario può essere anche quello di raccogliere i dubbi, le curiosità degli spettatori?
Il Commissario ha la funzione di porre il pubblico nella stessa identica condizione di Onoff. Questo commissariato è un luogo con una prospettiva irregolare, dove gli orologi non hanno lancette, sembra tutto, tranne che un commissariato e questa ambiguità muove il pubblico verso un perché: cosa ha fatto Onoff di così terribile da non potersene ricordare? E questo singolo perché mette in moto molti altri interrogativi a cui non si può dare una unica risposta razionale e geometrica.
A proposito di razionalità: secondo te esiste una “scienza”, un metodo che possa studiare e spiegare il Teatro e il lavoro dell’attore su se stesso?
Nell’esperienza di tanti anni, personalmente, affronto il personaggio anche registicamente con il bisturi della razionalità e dopo questa vivisezione del personaggio e del testo, quando salgo sul palco e comincio a provare avviene che, piano piano, da quel quattro per quattro uguale sedici, otto più otto diventa un campo di papaveri, una tempesta… Avviene qualcosa di magico che con la razionalità non si può spiegare e nasce la Poesia. Non so come accada, ma non voglio nemmeno saperlo.
Perché hai scelto per te il ruolo del Commissario affidando a Roberto Sturno quello di Onoff?
Prima di tutto per una questione di età. Onoff è ancora coinvolto dalla vita, il Commissario è più distaccato. Credo che nella caserma siano tutti dei suicidi: la caserma è il punto improprio dove le due rette parallele si incontrano. Tornatore mi ha dato carta bianca, poi mi ha detto che con le parole sono riuscito molto di più a spiegare quello che al cinema è un messaggio criptico. Tutte le opere sono grandi se danno ad un interprete lo stimolo di cercare nuove sfumature: le sfumature che ho dato ai personaggi, umanizzandoli. Il Commissario di Polanski è molto diverso dal mio – ovviamente non sto facendo un confronto qualitativo – che passa dalla tenerezza alla comprensione e anche fisicamente Sturno non è Depardieu che interpreta Onoff. Si tratta di fioriture differenti: il pubblico con la curiosità arriva a comprendere il messaggio inafferrabile, astratto del film. Tutti i brandelli di vita si ricompongono nel finale – diverso da quello del film – in cui c’è la spiegazione del senso che assume la caserma, di questo punto improprio e nella quieta coscienza, nella serena accettazione della morte, Onoff si volta verso il pubblico chiedendo “E adesso?”. Ecco, il mio è un finale laico che dà forza alla parola.
Orazio Costa è stato tuo Maestro e riguardo lo strumento dell’attore, il corpo, suggeriva di “corroborarlo di agilità, di rapidità, di canto, di danza, di poesia, di poesia e di poesia”. Cos’è la poesia, come si può riconoscerla – specialmente per i giovani – e come si può imparare a fare poesia?
Per me la Poesia è il concentrato della vita. Mejerch’old dice “l’arte sta alla vita, come il vino sta all’uva” il vino è il risultato della fermentazione del mosto come il teatro, che è arte, è la mediazione che induce ad approfondire i perché della vita. La poesia è l’essenza della vita: quello che in una pagina di un romanzo si esprime con mille parole, la poesia lo esprime anche solo con una parola. Si riconosce la poesia quando commuove, senza che si possa capire il perché. Penso alla poesia di Rimbaud che è pervasa da questo senso di morte, di solitudine strana, ma anche di giovinezza. Tutto l’impasto rende le sue espressioni immortali. Bisogna essere poeti per fare poesia, ma noi attori abbiamo una meravigliosa responsabilità: raccontiamo favole ricche di umanità – scritte da Sofocle, Shakespeare, Goethe, Molière, Beckett e tanti altri – che parlano di delusioni, di speranze, di amore, di vita.
Vorrei chiederti di condividere un ricordo di Luca Ronconi che nel 1972 ti ha diretto nell’Orestea di Eschilo.
Luca è entrato in Accademia un anno dopo di me e ricordo che l’ultimo suo ruolo da allievo fu ne “La dodicesima notte”. Mi ha scritto sei, sette giorni prima di morire e anche se non ci vedevamo spesso avevamo in comune una giovinezza e una formazione oltre che l’esperienza dell’Orestea. Io ero a Roma al Valle quando Luca scriveva la regia e appena finivo lo spettacolo veniva a prendermi. Mi parlava del suo progetto fino alle quattro del mattino in una trattoria nei pressi di Piazza Colonna. Era un grande e anche se si poteva non essere d’accordo con le sue scelte registiche, arrivava sempre un momento nella messa in scena in cui si riconosceva che quello era il lavoro fatto da un genio.

Come vedi il Teatro, il Cinema e la televisione oggi?
Io vedo una grande confusione. Il fattore economico sta avendo incidenza anche sulla cultura. Adesso non ci sono valori e se ci sono non si comprendono. Parlo del Teatro che è stato la mia vita e il mio terreno e continua ad esserlo ed è lontano dal periodo di mediocrità attuale. Si vuole essere famosi a tutti i costi adesso. Ho grande fiducia nella nuova generazione di attori talentuosi che saprà crescere.
Esprimere la parola significa esprimere il pensiero. Oggi siamo sommersi di parole e di pensiero, ma sembra che nulla venga più espresso. Come consideri questa situazione di liquidità sociale in senso lato e cosa credi si possa ancora fare per tornare ad “esprimere”?
La cosa importante è essere uomini. La Poesia, a mio avviso, non nasce dalla solitudine, ma dalla comunicazione e dall’incontro con gli altri. La necessità e il potere comunicare con gli altri uomini hanno permesso a Dante, a Shakespeare fino a Beckett di fare poesia. Nessuno si rinchiude in se stesso quando fa Poesia, ma cerca di comunicare con gli altri.
Comprendere l’uomo: cosa c’è ancora da scoprire?
Bisogna comprende gli uomini e questo l’ho imparato dai grandi autori come Dostoevskij. Dimenticare è facile, comprendere, perdonare è necessario. La vita può ottundere e confondere. Non si deve mai giudicare un uomo, ma bisogna avere il coraggio di mettersi in discussione per capire cosa si nasconde dietro un gesto. Non dico nemmeno che un uomo vada a prescindere giustificato. Ma compreso, sì. E questo è chiaro anche in Una pura formalità. La democrazia non è solo lasciare che ognuno dica la propria opinione anche se diversa dalla tua, questa è solo la base della democrazia. Democrazia significa predisporsi ad ascoltare e capire ciò che pensano gli altri, magari c’è una sfumatura che possiamo fare nostra.
Quali sono i confini, i limiti, i punti di contatto tra l’essere uomo e attore e tra l’essere attore e uomo?
Dopo tanti anni posso dire che sono la stessa cosa. Un attore su un palcoscenico non dovrebbe mai salirci solo per dimostrare la propria bravura. Brecht dice “tutte le arti contribuiscono all’arte più grande di tutte: quella di vivere”. E il Teatro è sicuramente l’arte degli uomini.
ARTICOLO DI IRENE GIANESELLI*
*articolo pubblicato per la prima volta l’8 aprile 2015 su Oubliette Magazine.
