«L’educazione non è un modello trasmissivo passivo. Non è confermare le trasmissioni di soli contenuti, è un processo relazionale, di reciprocità e di trasformazione» queste sono parole di don Luigi Ciotti, quelle che ho ritenuto subito fondamentali condividere, ma il suo discorso in occasione della tavola rotonda Mafia e disagio giovanile è durato cinquantadue minuti: intenso, onesto, antiretorico, coerente, riluttante agli applausi del legalismo e dell’indignazione di facciata.
Questo articolo serve a chi lo scrive, lo dichiaro subito. Serve a me, giovane donna di ventisette anni, perché devo ricordare la sensazione, le emozioni e i sentimenti che ho provato ascoltando Luigi Ciotti parlare il 16 ottobre 2024 nella Sala Consiliare del Comune di Bari. Mi serve perché tra una settimana, tra sei mesi, tra un anno o dieci anni, io non dovrò dimenticare che ho ascoltato queste parole, che mi è stata offerta la possibilità di credere che esiste una alternativa alla brutalizzazione dei corpi e delle menti, alla violenza e alla crudeltà della pedagogia neoliberista che ci vuole tutti schiavi, tutti uguali, desentimentalizzati e incoerenti, in vendita al miglior offerente. Certo, spero anche che questi appunti siano utili a chi, come me, crede che “essere giovani” non sia una colpa da espiare, ma una questione naturale e, anche, non strettamente anagrafica.
Ho bisogno di scrivere questi appunti per ricordare che non sono sola adesso e che non lo sarò domani: ci sono tante donne, tanti uomini che, come me, credono nella contro-pedagogia della trasformazione, in una forma di resistenza intellettuale che certo, è sfibrante, perché la si paga (e la si paga cara), ma è l’unica scelta possibile per chi crede nel “sogno di una cosa” che è un mondo giusto, di persone che hanno cura delle altre persone, di pari che possono vivere senza dogane o frontiere, senza marchi a fuoco nella carne (e c’è, lo sappiamo, chi prova a marchiare anche lo spirito, ultimamente: fallirà, che lo accetti).
Io, da pasolinista, credo nell’autoeducazione. Credo, cioè, che non ci si debba mai permettere di salire in cattedra, ma che si debba dialogare e, insieme, costruire un percorso: credo nella pedagogia che libera chi è oppresso, ma soprattutto che fa prendere consapevolezza agli oppressori del danno politico che essi creano, che offre possibilità ed esplora dimensioni, sono convinta che le persone debbano scegliere chi essere e come essere senza alcuna costrizione. Sentire Luigi Ciotti ripetere, ancora e ancora, che la questione dei giovani è, prima di tutto, una questione degli adulti, è una conferma, per me: in un Paese che non ci vuole adulti più, che cerca di rimuovere la morte e la fine delle cose, che non ammette la possibilità del cambiamento (perché tende a etichettare tutto e tutti), ecco io ho bisogno, avrò sempre bisogno di ricordare che le azioni da compiere, per auto-educarci (anzi, auto-ri-educarci alla realtà) sono tre. E non sono “credere, obbedire e combattere”. Le tre azioni sono morire, ascoltare, continuare. Luigi Ciotti è stato chiaro, quando ha esordito augurando agli adulti di morire per rigenerarsi. Il suo non era un motto vendicativo o una invettiva: era un invito a capire che la trasformazione è possibile solo se si accetta di “passare oltre”. Il punto è che per “passare oltre”, bisogna accettare che le vecchie credenze, gli atteggiamenti acquisiti, la cultura mafiosa che a volte emerge persino dagli insospettabili devono morire, cioè terminare, raggiungere l’ultima fase di un processo. Certo, Luigi Ciotti parla una lingua che oggi sembra dimenticata, anche e spesso soprattutto dai sedicenti cattolici: bisogna credere profondamente che la vita (di tutte le creature) è sacra per parlare in questo modo così concreto del valore del trapasso.
“L’educazione è un processo relazionale di reciprocità e trasformazione”. Non può esistere la pedagogia se chi ha il compito di insegnare non accetta di farsi trasformare dal processo educativo al pari di chi ha il compito di apprendere: i ruoli non possono essere a-simmetrici. La reciprocità è “il coraggio di essere coraggiosi”, cito ancora Ciotti, aggiungo: è il coraggio di scegliere da che parte stare e perché, ma di farlo insieme.
Tutto ciò mi fa pensare che le grandi lezioni degli incompresi e abusati Giovanni Bosco, Antonio Gramsci, Lorenzo Milani, Maria Montessori e ci metto anche Pier Paolo Pasolini, sono più vive che mai: ma le ho sentite da Luigi Ciotti. Mi sentirò davvero al sicuro quando le riconoscerò in tante e tanti altri, senza la paura di essere e di trovarsi scomodi. Per ora penso e ricordo a me stessa che l’antimafia non deve diventare l’ennesima etichetta a servizio della pedagogia neoliberista, ma un atto di ribellione fisiologico e, allo stesso tempo, un atto servile (come direbbe Garboli, cioè “a servizio”) nei confronti della Giustizia. Lo scrivo con la “g” maiuscola, come si faceva nel Novecento, ma è con la maiuscola che certe parole devono tornare ad essere scritte (e, prima che dette, pensate).
ARTICOLO DI IRENE GIANESELLI
FOTO © COSIMO FORINA
