Gianni Amelio: il campo di battaglia dove si scontrano i sentimenti

Gianni Amelio ha presentato il 21 settembre il suo Campo di battaglia, liberamente tratto dal romanzo La sfida di Carlo Patriarca, al Multicinema Galleria di Bari dopo la prima proiezione in anteprima alla 81ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia il 31 agosto 2024.

Comincio da un aneddoto personale: la proiezione di Campo di Battaglia al Multicinema Galleria è in sala 5. Qui ricordo di avere visto per la prima volta in versione integrale Novecento (1976) di Bernardo Bertolucci al Bari International Film Festival, un’esperienza decisamente fondamentale, per me. La coincidenza mi sembra perfetta: il film di Amelio, proprio come quello di Bertolucci, mette in scena due personaggi maschili complementari e dialetticamente contrastivi. Se in Novecento Alfredo (Robert De Niro) e Olmo (Gérard Depardieu) sono il padrone e il contadino che da due prospettive differenti affrontano conflitti e ideologie condividendo l’infanzia e il Secolo, in Campo di battaglia si fronteggiano Stefano (Gabriel Montesi) e Giulio (Alessandro Borghi). Il primo è un rigido borghese che ha potuto evitare anche all’amico, come a sé stesso, di essere medico al fronte grazie all’intervento del proprio facoltoso e influente padre (Alfredo non va al fronte proprio grazie all’aiuto del padre, Olmo invece sì); mentre il secondo è di estrazione sociale più bassa, è talentuoso, empatico, pronto a far disertare i soldati aggravando infezioni e ferite pur di salvarli dalla trincea. Certo, il contesto che Amelio sceglie dà al film una dimensione di prologo: l’ospedale militare diventa il campo di battaglia, così come le coscienze dei personaggi che vivono come giocando una partita a scacchi in solitaria, ma che non risolvono nemmeno il triangolo amoroso, quando Anna (Federica Rossellini) li raggiunge tra le corsie. Una scelta, questa, interessante perché di fatto sospende anche la trama d’amore: non siamo in un romanzo hemingwayano benché si rifletta su un addio alle armi e ci si chieda per chi suona la campana. Campo di battaglia è qualcosa di nuovo nella filmografia di Gianni Amelio. Certo, la misura e l’attenzione ai meccanismi emotivi dei personaggi sono quelle di sempre, ma l’espressionismo è marcato, le scelte registiche fanno pensare a una ricerca che lascia poco spazio all’improvvisazione: i dialoghi e le azioni sono colti con la stessa potenza di un Goya.

La prima sequenza sembra raccogliere la voce dei lirici di guerra: la mano di un soldato che emerge da una pila di corpi esanimi sembra vibrare di tutti i versi di Rebora, Ungaretti, Jahier, Michelstaedter che testimoniarono l’orrore del fronte.

Devo confessare che, quando ho girato quella scena, così come quando ho girato tutto il film, o altri film, non ho mai pensato a dei riferimenti precisi. Preferisco sempre che siano gli spettatori o i critici o i giornalisti a scoprire queste cose. Voglio lasciare proprio la libertà di emozionarsi per qualcosa senza che ci sia una premeditazione.

Un altro aspetto interessante, rispetto alla sua filmografia, è una forma “nuova” di espressionismo che emerge sin dalle prime scene.

Non ho mai pensato nemmeno a questo, mi scusi se mi esprimo in questo modo, ma sono sincero: io non parto mai da una forma precisa, non parto mai da un lavoro a tavolino dove prevedo delle cose. Io lavoro con i sentimenti. Cerco di trasmettere i sentimenti a chi ascolta e chi li vede, pensando che poi debbano essere arricchiti dallo spettatore. Voglio lasciare la libertà, a chi guarda, di trovare tante cose, anche diverse, come quelle che mi sta proponendo lei.

Il lavoro sui sentimenti mi sembra evidente, guida anche la direzione, mi permetto di dire.

Sì, e c’è un sentimento morale forte che mi guida, è motivato da me come persona, non come regista. Il film affronta la Prima guerra mondiale per raccontare, poi, di oggi: delle sofferenze, dei dolori, delle speranze di oggi. Per me viviamo in un mondo pieno di guerre, i fronti aperti sono tanti: c’è il Medio Oriente, l’Ucraina, anche il Mediterraneo, secondo me, è diventato un campo di battaglia perché ci sono tanti morti innocenti che fuggendo da altre guerre o da miserie, da disumanità, cercano rifugio in Occidente, però senza trovarlo. Quanti morti ci sono nel Mediterraneo oggi? È un campo di battaglia un po’ tutta la nostra Terra. E l’uomo non impara dai propri errori, continua a scannarsi, senza che ci sia una prospettiva di vita alternativa nel mondo. Le guerre di oggi somigliano a quelle del Novecento: sono sempre provocate dalle dittature, no? Sono provocate dal potere sempre più assetato di potere e quindi è doppiamente doloroso tutto questo perché siamo tutti vittime. Siamo tutti vittime di chi sta sopra di noi. Nel mondo le guerre nascono sempre dalle dittature, non nascono dalle democrazie.

Questo film sembra essere il prologo di qualcos’altro e così ci lascia con diverse questioni aperte sul nostro tempo. Si coglie perfettamente che il personaggio di Stefano (Gabriel Montesi) rappresenta la voce del militarismo esaltato che sfocerà nel cameratismo fascista, mentre Giulio (Alessandro Borghi) attua già una forma di ribellione e di resistenza alla retorica bellica e all’ideologia che germina negli atteggiamenti dei generali e del suo amico.

Lei ha capito molto del film, la sua è un’osservazione molto pertinente. Dopo la Prima guerra mondiale ne è seguita un’altra ancora più sbagliata e nel mezzo c’è stato un ventennio che ha portato poi addirittura alle leggi razziali che, per me, sono il delitto più atroce del Novecento: hanno portato all’omicidio di sei milioni di ebrei. Lei dice che il film è un prologo, annuncia qualcosa che dovrà avvenire e coglie nel segno. Ci saranno altre guerre, altro sangue che ancora oggi scontiamo. Al fronte compare il morbo misterioso che poi si spande tra militari e civili, la Spagnola, ma noi abbiamo conosciuto nuovamente questa situazione con la pandemia. La storia si ripete ancora, si ripete nei nostri anni. Io penso, ecco, che l’umanità si dovrebbe dedicare a lottare, se mai, contro le infezioni e le malattie: dovrebbe impegnarsi, con la scienza, a creare antidoti. Io ricordo quando avevo paura della poliomielite da bambino. O della tubercolosi che, dalla fine della Seconda guerra mondiale, fu terribile sino a metà degli anni Cinquanta. Ecco, tra Stefano e Giulio per me è molto importante il personaggio di Anna che con Giulio è affratellata dalla lotta al morbo della Spagnola: la loro è una guerra che vuole portare alla vita senza lasciare nessuno indietro.

Anna (Federica Rossellini) è infatti un personaggio complesso: commette i suoi errori, non comprende subito che disertare è una forma di ribellione, più o meno consapevole, alla guerra.

La Prima guerra mondiale fu combattuta da giovanissimi, impreparati militarmente e arruolati in massa, ai quali si dava un fucile in mano dicendo: “Ecco, quello è il tuo nemico, spara”. Il tema del film è esattamente questo: chi abbandona il fronte è un vigliacco perché abbandona gli altri al proprio dovere, oppure fugge disperatamente perché si ribella alla morte e alla violenza? Ecco, sono queste le due posizioni che Stefano e Giulio incarnano. Giulio sogna un altro tipo di società, un altro tipo di convivenza tra gli umani, forse è anche un illuso. Anna tiene in qualche modo la barra dritta del comportamento, è una donna a cui è stato negato il diritto di essere medico, io ricordo che ancora negli anni Cinquanta si diffidava delle dottoresse: lei è la speranza.

Tra le scelte linguistiche del film ho apprezzato che sia un bambino a restituirle dignità professionale e a chiamarla “dottora”.

Sì, è un innocente che le riconosce lo status di medico. È quasi bizzarro che lei, a cui è stato impedito di laurearsi, poi venga chiamata addirittura “dottora” da un bambino. Anna non vuole che si continui a morire per la guerra, perché anche il morbo è, di fatto, una conseguenza del conflitto e quindi quella sua battuta è quasi un grido, anche se è detta in un soffio.

A proposito del lavoro sul suono: nel film tutti si muovono cercando di non fare rumore, anche la musica di Franco Piersanti emerge in pochi momenti e in modo coerente rispetto alle azioni. È un film che procede in levare, mentre altrove lo spettatore immagina il rumore della trincea.

Sì, l’ospedale è un luogo di lamento, ma anche di silenzio, un silenzio di morte. È il campo di battaglia dove tutti quanti stanno per chiudere la vita e quindi per questo non hanno nemmeno la forza di gridare o ribellarsi. I ragazzi nelle corsie sono abbandonati a loro stessi e per questo accettano l’idea di sfuggire alla morte con l’aiuto di un medico che però deve farli aggravare. È straziante: vengono guariti perché possano tornare di nuovo al fronte con un fucile in mano. Questo è l’interrogativo che Giulio si pone da medico: li si fa guarire, perché muoiano con il fucile in mano?  Non lo accetta e fa la sua ribellione. Moralmente, penso che non dovremmo accettare nemmeno noi, oggi, che si possa morire per la guerra e che possa quindi vincere sempre una morte ingiusta. Ho chiesto a Franco Piersanti una musica che non fosse un commento, non amo che diventi retorico. Le immagini rischiano di avere un che di sovrabbondante quando c’è la musica. Io penso che le reazioni dei personaggi, quello che si vede sullo schermo abbiano una forza che non ha bisogno di essere commentata da uno strumento musicale che ti porta sempre un po’ fuori dalla realtà, porta a considerare un po’ finto quello che accade. Così la musica è in pochi momenti, ma Franco lavora con me da sempre, non ha avuto bisogno di molte indicazioni, ci trovavamo perfettamente in sintonia. Posso aggiungere che per Campo di battaglia ho la musica che volevo.

La mia ultima domanda riguarda ancora la misura: la fotografia (Luan Amelio Ujkaj), la scenografia (Beatrice Scarpato), il trucco (Roberto Pastore), gli effetti visivi (Leonardo Cruciano) mi sembra che corrispondano alla medesima intenzione antiretorica.

Sì, perché tutti i reparti seguono la linea dettata dal regista e noi prima di procedere sul set studiamo molto l’aspetto visuale. Si trattava di non fare una fotografia molto violenta, con colori molto forti che avrebbero dato un’idea di falsità alla storia. Si trattava anche di non calcare troppo la crudeltà della guerra mostrando i corpi straziati, il sangue in modo sgradevole. Abbiamo lavorato in grande armonia con l’idea di cercare le soluzioni giuste. Ecco, Campo di battaglia non è un film di scelte ornamentali.

ARTICOLO DI IRENE GIANESELLI

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