Sulle rotte di Edgar Allan Poe: la Ballata di Dan tra mito e migrazione

La domanda che attraversa La ballata di Dan non appartiene a un manifesto estetico né a un progetto teorico preesistente: arriva alla fine del concerto, pronunciata da Franco Piersanti con un’emozione che non tenta di controllare. È il 20 novembre 2025, al Teatro Abeliano di Bari, al termine della prima esecuzione assoluta di un lavoro commissionato dal Collegium Musicum; il pubblico ha ancora nelle orecchie l’ultima risonanza dell’ensemble quando il compositore, quasi con il pudore di chi espone una vulnerabilità, chiede: «Che senso ha la musica oggi?». Non suona come un espediente dialettico, ma come un interrogativo che nasce dal corpo stesso dell’opera, un modo per confermare che la musica, per continuare ad avere un senso, deve rimanere esposta alle narrazioni reali, ai conflitti, alle vite che porta dentro di sé.

Dentro questo orizzonte si colloca l’impianto narrativo a due voci che sostiene La ballata di Dan: i brani scelti da The Narrative of Arthur Gordon Pym di Edgar Allan Poe – restituiti da Giancarlo De Cataldo con una declamazione controllata, quasi isoritmica – e i frammenti autobiografici di Dan Obuseh, che non interpreta un personaggio ma offre la propria voce come corpo vivo di un’esperienza migratoria reale. L’interesse musicologico non risiede nella semplice corrispondenza tematica tra viaggio immaginario e viaggio vissuto, bensì nella differenza di materie vocali: la voce di De Cataldo conserva la distanza letteraria del testo, mentre quella di Obuseh è attraversata da stratificazioni fonetiche, inflessioni irregolari, segni di territori e lingue che non scompaiono nel momento performativo. Entrambe le voci conservano la traccia dei passaggi attraverso luoghi, lingue e sofferenze, ma lo fanno in modi opposti: una attraverso controllo e linearità, l’altra attraverso fratture e vibrazioni. È in questa frizione che si genera la forza drammaturgica del lavoro.

Piersanti accoglie queste differenze senza tentare di uniformarle. Anzi, le lascia incastonarsi nel tessuto musicale come elementi strutturali, parte integrante della morfologia del pezzo. L’ensemble non accompagna le voci: interviene come un organismo che delimita zone, apre varchi, introduce tensioni timbriche. Le percussioni, impiegate con estrema economia, scandiscono soglie più che ritmi, producendo superfici d’urto che orientano la percezione del tempo. Il pianoforte, suonato dal compositore, diventa il cuore timbrico della partitura: linee spezzate, accordi rarefatti, un tocco di una delicatezza quasi disarmante. Non è una delicatezza sentimentale, ma funzionale: abbassa la pressione sonora per offrire alla parola lo spazio necessario, costruisce un ambiente in cui il racconto possa respirare, evita che la musica sovrasti ciò che vuole custodire.

La composizione si muove così per accumulo di presenze più che per sviluppo tematico, sebbene un tema persista e si lasci riconoscere in iterazioni insistite, quasi dei ritorni di memoria che affiorano senza mai trasformarsi in un vero processo evolutivo. Piersanti non costruisce un percorso tematico tradizionale: lascia che il tema funzioni come una soglia percettiva, un punto di risonanza che riemerge per orientare l’ascolto senza imporre una direzione formale. È un gesto che riflette un’idea della forma come campo aperto, non come vettore che conduce verso una sintesi.

Nella tessitura strumentale, gli archi assumono un ruolo particolarmente interessante: non emergono come protagonisti, ma modulano la continuità del discorso con interventi che operano sul piano timbrico più che su quello tematico. I loro ingressi, spesso distribuiti in dinamiche estremamente contenute, agiscono come gradienti di atmosfera: creano micro-variazioni di densità, aprono spazi di sospensione, ricompattano la scena sonora intorno alla parola senza mai ingombrarla. Non si tratta di un sostegno armonico tradizionale, ma di una presenza porosa, capace di insinuarsi tra le linee vocali e il pianoforte con tracciati sottili, talvolta statici, talvolta lievemente granulari. Questa scrittura degli archi – essenziale ma rigorosamente funzionale – contribuisce in modo determinante a quell’“accumulo di presenze” che caratterizza la forma dell’opera, offrendo una trama sensoriale che non guida l’ascolto, ma ne amplifica la profondità percettiva: anche chi non c’è più, in queste vibrazioni, rimane.

Questa postura acquisisce un rilievo particolare se si considera il contesto in cui l’opera prende forma. Viviamo in un tempo in cui la migrazione viene spesso ridotta a infrazione, a categoria sospetta; un tempo in cui l’esclusione – nelle sue forme più ottuse e quotidiane – assume la funzione di una pena inflitta a chi attraversa un confine per necessità più che per scelta. Questa narrazione pubblica tende a cancellare il vissuto concreto delle persone, a dissolvere la specificità delle loro storie in una massa indistinta. È proprio contro questa omologazione che La ballata di Dan lavora: restituendo alla voce individuale la sua singolarità non negoziabile, offrendo uno spazio in cui le tracce fonetiche, i residui linguistici, le incrinature emotive di Obuseh possano emergere senza essere filtrate. In questo quadro, la musica non funge da commento, ma crea le condizioni percettive per un ascolto capace di restituire complessità al reale, sottraendolo alla semplificazione punitiva che domina la retorica contemporanea.

La ballata di Dan è, in questo senso, un atto musicale che non pretende di chiudere un discorso, ma di mantenerlo aperto, affidandolo alla relazione fra chi compone, chi interpreta e chi ascolta. La domanda di Piersanti – «Che senso ha la musica oggi?» – continua a risuonare non come mancanza di risposte, ma come invito a considerare la musica un luogo in cui la complessità del reale può ancora trovare spazio per esistere senza essere compressa o semplificata, e in cui la responsabilità dell’arte coincide con la qualità dell’ascolto che riesce a generare.

ARTICOLO DI IRENE GIANESELLI

Foto di Vito Signorile

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