I treni di Giacomo Matteotti: ora e sempre l’esistenza

Giacomo Matteotti – detto anche “tempesta” per l’irruenza dei suoi discorsi – era un ipercinetico. Come sua madre Elisabetta, detta Isabella,  non stava mai fermo. Quando si fidanzò con la poetessa e romanziera Velia Titta lui le parlò di sé paragonandosi a un motore elettrico. D’altronde la politica, come lui la intendeva, era movimento, spostarsi, portare il socialismo dove il socialismo non arrivava. Si era comprato anche la macchina, nel 1914, per spostarsi, raggiungere con maggiore facilità le frazioni più dimenticate del Polesine, il suo collegio elettorale, tra poverissimi braccianti, ad insegnare loro, da riformista radicale qual era – rivoluzionario nei fatti non a parole – come si controlla un bilancio comunale (anche e soprattutto se il comune era “rosso”).

Era uno dei pochi deputati italiani di allora che da giovane avesse viaggiato un bel po’ all’estero per motivi di studio. Fu a più riprese in Francia, Belgio, Inghilterra, Germania, Austria. Entrato in politica poi – per tre legislature: 19, 21, 24 – risultò perennemente in viaggio. Basti pensare che non fu presente alla nascita di nessuno dei tre adorati figli Matteo, Giancarlo, Isabella. Tutte e tre le volte altrove: a un convegno socialista, a una riunione delle Leghe contadine, a un direttivo provinciale.

Velia, che l’avrebbe voluto professore universitario, non così lontano da casa, pur appoggiando l’instancabile attività del marito, ne soffriva in solitudine, lamentandosene a volte, da innamoratissima che era (ricambiata) nelle lettere che si scambiavano.  

“Sono sfinita Giaki (così Velia lo chiamava familiarmente: lui la chiamava, vezzosamente al maschile, il Chini) … tu sei sempre tornato nella solita camera trovata qua e là e io, rimasta sola, sempre sola, qua e là col cuore freddo e il vuoto della continua separazione. Basta, basta specialmente ora, se tempi più duri devono venire.”

Insomma un grande viaggiatore, che macinava migliaia di chilometri per l’ideale socialista. Ecco, da una delle tante lettere spedite a Velia nei dodici anni di vita comune – quattro di fidanzamento e otto di matrimonio (si erano sposati nel 1916) – gli impegni di un qualunque fine settimana:

“domattina alle nove sono nel comune di Frassinelle, alle 11 in quello di Polesella e a mezzogiorno arrivo col treno a Rovigo per diversi convegni. Parto alle due per Gavello alle cinque sono a Papozze, lunedì mattina ancora a Rovigo, il pomeriggio a Fratta. La notte dormirò… in qualche luogo…”

 “Pellegrino del nulla” lo definì sprezzante Gramsci, dopo che lui, poche settimane prima di essere ammazzato, rifiutò di incontrarsi coi comunisti poiché contrarissimo ad ogni dittatura, anche del proletariato. Gramsci poi, in carcere, ebbe tempo di ricredersi.

Un deputato “movimentista” che sfruttava meticolosamente la tessera ferroviaria da parlamentare su ogni tipo di treno: locale, nazionale, internazionale, accelerato, diretto, direttissimo. Dato che era ricco (il “social milionario” lo apostrofava Mussolini) e non rinunciava a certe comodità tipo i grandi alberghi (pur arrangiandosi alla meglio in un fienile se si doveva adattare) avrà viaggiato di preferenza in prima classe. Sui treni per l’estero, che prendeva per andare ai congressi dei socialisti europei – anche clandestinamente (cosa che faceva infuriare  il duce) se gli avevano ritirato il passaporto (ma glielo ritiravano spesso) –  combinando, da abile organizzatore qual era, orari e cambi tra diretti e locali per poter raggiungere  nella stessa mattinata il maggior numero di “piazze” dove tenere un comizio; calcolando le soste programmata del treno per potersi incontrare qualche minuto con Velia, in transito dalla stessa stazione, su un altro convoglio (anche lei era una discreta viaggiatrice, per motivi familiari però, tra Pisa, Rovigo, Milano, Roma, Genova, Venezia); approfittando d’un paio d’ore di “buco” (guadagnate partendo in anticipo) su qualche coincidenza per un diversivo artistico (era un vero patito dell’arte).

“Poi ho trovato tutti i treni  comodi e non molta gente. Anzi, con uno stratagemma, avendo potuto giungere ad Arezzo due ore prima del mio treno normale, non ho potuto resistere alla tentazione di andare per i dipinti di Piero della Francesca, malgrado il mio dispiacere di non poterli vedere proprio assieme al mio Chini. Del resto, si fa presto perché distano appena dieci minuti dalla stazione.

Ma dei tanti treni che la vita (e la morte) di Matteotti hanno incrociato ce ne sono tre, in particolare che non andrebbero dimenticati.

Il primo è un treno per Vienna.

In partenza da Roma alle 23.40 di sabato 7 giugno 1924. Su quel treno – probabilmente in vagone letto – avrebbe dovuto esserci Matteotti. Doveva recarsi in Austria ad un convegno di varie correnti socialiste. Il passaporto, di solito negato, (ma lui espatriava come e quando gli pareva, tanto al rientro, godendo dell’immunità parlamentare, ancora vigente, non lo potevano arrestare) gli era stato rilasciato senza che l’avesse richiesto, con inusuale sollecitudine dal ministero degli interni. Lui e Velia ne avevano perfino riso, in macchina. Poi Giacomo, inspiegabilmente, aveva rinunciato al viaggio. Fosse salito su quel treno, l’avrebbero fatto sparire oltreconfine. Per attribuirne con comodo la responsabilità a faide interne al socialismo, tra massimalisti e unitari (dopo il delitto, durante le febbrili ricerche del corpo, Mussolini, fingendo stupore – con alcuni dei suoi, ma non del cerchio ristretto che, come lui, sapevano tutto – se ne uscì dicendo “Ma non gli abbiamo ridato il passaporto per l’Austria? Ecco, lo cerchino a Vienna. Sarà andato a puttane”).

Matteotti però in stazione non era arrivato. Amerigo Dumini, a capo della squadra che l’avrebbe poi eliminato, aveva fatto su e giù per il treno parecchie volte per essere sicuro che l’onorevole non ci fosse, e conseguente ideazione di un piano alternativo, messo in atto il martedì seguente.

Il secondo è un treno da Monterotondo.

Quel che restava del corpo dell’onorevole Matteotti venne ritrovato il giorno dopo Ferragosto del 1924, a 25 chilometri da Roma, in una macchia di querce a cento metri dalla via Flaminia, Comune di Riano in una tenuta detta della “Quartarella”. Secondo la volontà espressa più volte  in vita dal marito, di essere sepolto a Fratta Polesine, il paese natale, Velia voleva organizzare il trasporto del feretro, come suggerito dagli ex compagni di partito, e come lei stessa in un primo momento desiderava, per consentire l’omaggio popolare  alla salma, col treno diretto in partenza da Roma il giorno 20 alle 8 del mattino. Il governo le fece sapere che avrebbe preferito una stazione di partenza meno in vista per evitare possibili tumulti tra fascisti e antifascisti. Velia, cattolica praticante, al pensiero di altri possibili morti da una parte e dall’altra, di altri lutti in altre famiglie, a malincuore finì per acconsentire. Chiese a Luigi Federzoni, ministro dell’interno:

che nessuna rappresentanza della milizia fascista sia di scorta al treno, chiedo che nessuna camicia nera si mostri davanti al feretro ed ai miei occhi durante il viaggio e a fratta Polesine, fino a tanto che la salma verrà sepolta. Nessuna vettura riservata, nessuna agevolazione o privilegio, nessuna disposizione per modificare il percorso del treno, quale risulta dall’orario di pubblico dominio. Voglio viaggiare come semplice cittadina italiana che compie i suoi doveri per poter esigere i suoi diritti…”

Il ministro dispose che il rientro del feretro per Fratta Polesine dovesse partire dalla stazione di Monterotondo “senza cioè toccare Roma. Non il giorno 20 bensì il 19, con treno speciale, scorta di cento carabinieri, nottetempo.”

Sul treno c’erano alcuni compagni di partito, tra cui Turati.

“Davanti alle stazioni un po’ di gente aspetta ma a misura che procediamo le stazioni appaiono deserte. Questo cadavere di cui da due mesi l’Italia si occupa viaggia in perfetto incognito. Soltanto i ferrovieri hanno potuto vedere questo treno che pareva più rapido di tutti i treni. Non abbiamo avuto un minuto di ritardo”.

Non di giorno i poveri resti straziati di Matteotti dovevano attraversare l’Italia, ma di notte, come un ladro: tamquam fur… 

Velia Titta con il fratello Ruffo

Il terzo è un treno per Velia.

Quello che avrebbe voluto, per il marito, in partenza da Roma, alle otto del mattino del giorno 20. Non un treno speciale. Un treno normale. Con viaggiatori comuni. Senza deviazioni di percorso. Senza cambi d’orario. Senza agevolazioni o privilegi. Senza scorte, attenzioni particolari. Un treno che viaggi  semplicemente, incrociando altri treni, nella normale vita di tutti i giorni, con sopra semplici cittadini italiani, di quelli che si comprano il proprio biglietto, compiono il proprio dovere, per poter esigere, com’è giusto, il proprio diritto. Di viaggiare, di esprimersi, di vivere, per quanto possibile (ma anche oltre) in un semplice 20 di agosto dei nostri giorni, ore otto del mattino, stazione Termini, con noi sopra, insieme al ricordo di un uomo che per noi ha sacrificato la vita, noi, ancora in movimento, ancora, per il momento, in libertà.

ARTICOLO DI MAURIZIO DONADONI

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