Storie di chi fugge ma non parte mai: A Chiara e il nuovo coming-of-age italiano
Pubblichiamo gli elaboratori vincitori del Premio Internazionale di Critica Cinematografica Vito Attolini 2023. CHIARA ALESSANDRO (2000) da Reggio Calabria è vincitrice della sezione recensione Under 35 con “Storie di chi fugge ma non parte mai: A Chiara e il nuovo coming-of-age italiano” per il tema “Visioni dal Sud e del Sud”.
Ali chiuse, spalle al muro Anni che cerco le cose giuste Te lo assicuro come se fossi cartapesta Scrivo nel fumo, in mezzo a un puzzle, disfarle tutte Resta nessuno e poi discorsi, mi sento in torto Vivessi di getto, tremando, quant’è quel costo? Altalene – ThaSup, Mara Sattei, Coez
Negli ultimi anni, il cinema italiano ha rafforzato il suo lessico costruendo delle narrazioni in cui le terre del profondo Sud, spesso oggetto o sfondo, riescono a ritagliarsi uno spazio e diventare soggetto. Spesso sono un racconto di cronaca nudo e crudo, vissuto e osservato da chi la plasma, giorno dopo giorno. Altre volte, sono la goliardica sfida per la proiezione di un futuro che fatica a diventare presente. Nel cinema di Jonas Carpignano, in cui la città diventa la protagonista che scruta, accoglie, condanna, assistiamo ad un cambiamento di rotta in cui spogliata delle sue nefandezze, si allarga per farsi strumento attraverso cui snodare i dubbi. Con un punto di vista lucido e (in)definito, il regista non assolve e non condanna ma trasforma in parole il fermento di una comunità attaccata alla sua terra.
Ultima pellicola che chiude, simbolicamente, la trilogia Calabrese – A ciambra e Mediterranea inaugurano il filone – A Chiara, è il lento disvelamento di una scoperta, vissuta e analizzata attraverso gli occhi una ragazza, la stessa a cui il film è dedicato, una quindicenne che ancora non conosce il mondo a cui – marginalmente – appartiene. Chiara, trasparente, lucida: il suo nome le appartiene e contiene in sé, come un’etichetta, tutta la sua verità. Nella dimensione domestica in cui tutta l’azione si svolge, i piani narrativi si focalizzano su due aspetti cruciali: l’aspetto relazionale tra i vari membri – la famiglia Guerrasio che appare come una famiglia profondamente unita, legati da una forte intimità – e l’aspetto psicologico della protagonista Chiara che trova un aggancio nella natura come elemento incontaminato dalla cattiveria umana, in cui viene tracciato un discorso tra il fuori e il dentro come esilio e rifugio. Tutto è giocato su questi due livelli, un interscambio tra i dubbi e le perplessità di Chiara e l’apparente normalità attraverso cui la famiglia vive la delinquenza del padre. Quello raccontato da Carpignano è il tracciamento di un percorso umano o, meglio, un paesaggio umano, tra chi fugge – come il padre che improvvisamente lascia la città pur non essendosene mai andato e chi resta – come la stessa Chiara che nel restare attaccata ad un ideale è poi costretta a fuggir via. Questo restare, che immobilizza e stordisce, è anche l’ostinazione di chi – come se fosse inscritto nel destino – deve ricostruire i pezzi di un passato irrisolto che, inevitabilmente, non sfugge al presente. I personaggi, che sono calati in un contesto realistico e socialmente marginale, si servono della città per inscenare le proprie emozioni e sensazioni: l’uno è il motore dell’altro. La città nutre il personaggio dando vita e azione e il personaggio si scopre, gradualmente, nella città. Ed è proprio dalla città nel profondo Sud – Gioia Tauro, in provincia di Reggio Calabria – che lo sguardo intimo e profondo del regista si dipana permettendo, attraverso una ri(lettura) dei rapporti umani, di scrutare ciò che esiste aldilà delle scelte personali, degli errori e delle mancanze; quello compiuto da Chiara è un vero e proprio viaggio dell’eroina, tutto al femminile, segnando con l’evoluzione del suo personaggio, il passaggio da adolescente ad adulto e che è visibile nella stessa struttura della pellicola: una prima parte in cui viene illustrato l’ambiente familiare, il contesto sociale, l’assenza di opportunità per un futuro migliore – se non il traffico di droga e la seconda in cui avviene l’azione, il percorso interiore e il tentativo, infine riuscito, di redenzione altrove. A Chiara – che come una lettera, s’indirizza alle molteplici Chiara esistenti nella realtà sociale italiana – è il manifesto di nuovo cinema italiano che analizza un problema non indifferente: in 98 minuti tocca le corde dell’animo, senza dimenticare di raccontare la crudezza di una realtà non facile per chi la vive e di una coscienza messa a tacere con delle – miserabili – giustificazioni da parte del mondo degli adulti. Non ci sono né vincitori né vinti, è un’indagine sulla difficoltà del crescere con una cultura mafiosa che aleggia sulle spalle – ma non è mai una componente dominante nella pellicola.
È una sfida con la conoscenza, l’accessibilità alla fonte, alle risposte che – da sempre – mancano. Perché a Chiara, nel momento in cui scopre la collusione del padre nell’associazione mafiosa, nessuno vuole, o non riesce, dare una spiegazione. E allora, come una vera eroina, parte da sola alla ricerca della verità, costruendosene una sua. La ricerca della verità, al contempo, la salverà – temporaneamente – portandola in un altrove spaziale, in cui l’ambiente, diverso e migliore, giocherà ancora una volta la sua partita. Lontano dalla sua terra, Chiara guarda il mondo con occhi diversi, in una sperimentazione di libertà che ri(apre) le ali.